Il debutto in inglese di Pedro Almodovar nasce dall’adattamento del romanzo del 2020 What Are You Going Through di Sigrid Nunez, che il regista ha curato in prima persona.
Nell’ultima parte della sua carriera più volte i suoi film hanno affrontato in modo diretto e indiretto l’ombra della morte e il peso degli addii, ma questa volta tutto il suo lavoro ruota attorno alla malattia e alla serena accettazione della fine.
Ingrid, una scrittrice di successo, e Martha, una reporter di guerra malata terminale, si ritrovano dopo molti anni a New York.
La seconda, che vive da sola, completamente estraniata dalla figlia Michelle, chiederà alla prima di assisterla in un percorso dignitoso verso la fine, dopo che i trattamenti sperimentali a cui si è sottoposta non hanno prodotto i risultati sperati.
Dopo aver riallacciato i rapporti di un passato lontano, cominciato assieme alla rivista Paper, Martha affitterà una bellissima villa nel mezzo dei boschi di Woodstock per mettere la parola fine alla sua vita, senza subire l’onta dell’agonia. A Ingrid il compito di accompagnarla, restando nella stanza accanto.
Il film è un minuetto a due, in cui finiscono per entrare solo incidentalmente alcuni personaggi, che appaiono di mero contorno: l’intellettuale Demian, amante di entrambe le donne molti anni prima, un poliziotto fanatico, ottuso e sordido e infine la figlia di Martha, Michelle, che nel film ha sempre il volto di Tilda Swinton, con risultati francamente imbarazzanti.
Il lavoro di Almodovar vorrebbe essere un lento percorso attraverso i ricordi: una confessione dei propri errori e una rivendicazione delle proprie inadeguatezze personali e professionali. Ma vorrebbe essere soprattutto un testamento sulla libertà di scelta e una riflessione sulla morte, come parte essenziale e integrale dell’esperienza umana.
Il melò respira malinconia e senso della fine, solo che tra citazioni, film, libri, fotografie e lunghe chiacchierate, La stanza accanto non riesce mai a trovare il suo ritmo e la sua autenticità: le battute suonano un po’ telefonate, forse perché l’inglese non è mai stata la lingua di Pedro.
Le idee sono condivisibili ma risapute, tra chi preferisce accettare serenamente la fine e chi vorrebbe invece lottare sino all’ultimo. E anche il mondo ultra-borghese in cui i personaggi si muovono, immersi continuamente nelle stesse tonalità impeccabili di verde, blu e vermiglio, in una villa di bellezza spaventosa, lasciano un senso di stucchevole perfezione. Persino l’acqua che scorre dai rubinetti lo fa in modo elegante e cinematografico.
E’ come se in questo film di Almodovar mancasse proprio quell’umanità che i suoi personaggi anelano. Si sentono come non mai le pagine del romanzo, i caratteri sono tutti impeccabilmente rotondi, ma schiacciati nei loro stereotipi perfettini e fastidiosi. Non sembra scorrere sangue nelle vene di Martha e Ingrid e ancor più piatti appaiono i tre testimoni.
Il film è prevedibile, giusto, ma rivolto evidentemente ad un pubblico di già convinti, figlio di questo Almodovar finale, che – a partire da Gli abbracci spezzati – sembra indugiare continuamente in pensieri di morte e lontane nostalgie di vita.
I dialoghi sono didascalici e insistiti, inutilmente ansiogeni, sempre distanti.
Il cinema surreale, esagerato e camp di Almodovar si è rifugiato in una rispettabilità levigata e con la lacrima facile che mi pare tradire la libertà scatenata e la generosità travolgente del passato, in favore di un atteggiamento pacificato e in un certo senso rassegnato.
Terminale.
Leone d’Oro di Venezia 81. In Italia dal 5 dicembre.


[…] d’Oro: La stanza accanto di Pedro […]