Nel 1988 Tim Burton era un giovane prodigio dell’animazione, formatosi alla Disney e poi fuggito alla Warner, dopo i corti Vincent e Frankenweenie: Paul Reubens l’aveva voluto per dirigere la versione cinematografica del suo personaggio Pee Wee Herman.
Dopo l’esordio su commissione e un breve passaggio in tv con le serie Alfred Hitchcock presenta e Nel regno delle fiabe, Burton cercava un progetto che potesse mostrare l’originalità del suo universo narrativo e la scelta cadde su un copione bizzarro dal titolo improbabile creato da Michael McDowell e Larry Wilson e poi riscritto con Warren Skaaren: Beetlejuice era una storia di fantasmi capace di unire sotto il cappello di una commedia scatenata le atmosfere gotiche e un universo pop anni ’50, una dimensione affettuosamente horror al racconto di formazione, manifestando i primi segni di uno spirito orgogliosamente ribelle e attento ad una marginalità nerd diventato un segno distintivo della sua poetica.
Beetlejuice Beetlejuice è un sequel che arriva trentacinque anni dopo l’originale e riprende gli stessi personaggi di allora, senza negare il tempo trascorso.
Lydia Deetz, la giovane adolescente goth capace di vedere i morti, ha fatto del suo talento una professione: mediatrice psichica, star tv di un programma in cui viene invitata a visitare case infestate, viene interrotta nel bel mezzo di una puntata dalla notizia della morte del padre Charles.
Lydia è così costretta così a tornare a Winter River, la piccola cittadina di provincia in cui il padre aveva acquistato la villa abitata dai fantasmi dei Maitland, in cui si erano svolti gli eventi del primo film.
Solo che oltre alla matrigna Delia, artista concettuale e performer ancora sulla cresta dell’onda, l’accompagna la figlia Astrid, adolescente ribelle come lo era lei, orfana del padre.
Nel frattempo nel mondo dei morti l’ex moglie di Beetlejuice, Delores, fatta a pezzi dal marito, trova il modo di rimettere insieme il suo corpo e come una novella Frankenstein decide di prendersi la sua vendetta.
A vigilare sugli incontri vietati tra i due mondi l’attore di B-movie Wolf Jackson, ora determinato detective dell’aldilà.
Questa nuova storia di fantasmi sembra essere una boccata d’aria fresca per Burton che, dopo il capolavoro Big Fish, ha trovato anche grandi successi di pubblico (Alice o La fabbrica di cioccolato), ma ha via via dissipato l’aura che si era costruito nel corso degli anni, annacquando la purezza del suo messaggio e del suo linguaggio. Il suo cinema si è fatto maniera, l’originalità si è trasformata in innocuo vezzo, firma incapace di vivificare una messa in scena del tutto ordinaria. La sua stessa prodigiosa capacità di costruire mondi da prospettive marginali e oblique è andata spesso perduta.
Cinque anni dopo il suo Dumbo disneyano e dieci anni dopo il suo adulto e anemico Big Eyes, Beetlejuice Beetlejuice sembra riportarlo a quel mondo analogico e artigianale da cui era partito.
Il film è un aggiornamento gustoso dei temi e dei personaggi dell’originale, costruito a partire dall’assenza di Jeffrey Jones nel ruolo del padre Charles Deetz. Le circostanze della sua morte vengono infatti mostrate in un inserto in animazione stop motion e il suo cadavere appare nell’aldilà senza la testa, divorata opportunamente da uno squalo.
La famiglia Deetz è cresciuta e si è ampliata, ma Lydia è ancora ossessionata dai fantasmi e dall’orrendo e laido spirito Beetlejuice, che non l’ha dimenticata e vuole ancora sposarla.
Anche questa volta però il personaggio capace di attraversare i mondi è l’adolescente di casa, Astrid, che pian piano guadagna – così come avveniva nel primo capitolo – una centralità attorno a cui tutti gli altri finiscono per ruotare.
Beetlejuice Beetlejuice rimane un film affettuoso, bizzarro come l’originale, capace di sfruttare gli stessi elementi per regalarci una nuova avventura a cavallo fra due mondi.
Non mancano momenti che aggiornano il ritratto di un tempo, a partire dal Soul Train che porta al Great Beyond, con il ritmo della musica dell’anima.
Decisamente indovinati i personaggi nuovi, il formidabile Willem Dafoe nei panni dell’attore-poliziotto, costantemente in parte, tra minaccia e ridicolo involontario, e Monica Bellucci, nuova e letale sposa fantasma.
Winona Ryder, come in Stranger Things, è il personaggio cerniera: la sua immagine d’adolescente sensibile e alternativa si è trasformata in quella di un genitore non meno alieno da ogni conformismo familiare.
Difficile pronosticare se il nuovo film avrà il successo dell’originale, un piccolo cult, capace allora di costruire quel pubblico che avrebbe accompagnato Burton nella sua fulminante ascesa fino al Leone d’Oro alla carriera, ricevuto nel 2007 a soli 49 anni.
Oggi i tempi sono molto diversi e anche se il personaggio interpretato da Michael Keaton resta uno dei più iconici nel cinema del Maestro di Burbank, è difficile capire se riuscirà a parlare a spettatori nuovi, una generazione completamente diversa da quella che aveva abbracciato l’originale negli anni ’80.
Il film resta un divertissement legittimo, tra nostalgia e originalità, che continua a parlare della morte, dell’elaborazione del lutto e dell’accettazione del proprio destino con la grazia sgangherata e leggera di un tempo.

