Il caso Yara ***
Il caso Yara: oltre ogni ragionevole dubbio racconta la storia delle indagini in merito all’omicidio di Yara Gambirasio, una ragazzina di 13 anni appassionata di ginnastica ritmica scomparsa mentre tornava a casa dalla palestra di Brembate di Sopra, paese di 8.000 abitanti in provincia di Bergamo, il 26 Novembre del 2010. Per il delitto, aggravato dalla minorata difesa, sevizie e crudeltà è stato condannato Giuseppe Massimo Bossetti che sta scontando l’ergastolo presso il carcere di Bollate. La produzione, realizzata da Gianluca Neri con il contributo di Carlo G. Gabardini ed Elena Grillone, è una delle docuserie Netflix più seguite nel nostro Paese, replicando il successo di SanPa: luci e tenebre di San Patrignano (2020) e di Vatican Girl: la scomparsa di Emanuela Orlandi (2022). In realtà l’idea di questa produzione è antecedente ad entrambe, perché è dal 2017 che Neri e i suoi collaboratori si preparano minuziosamente leggendo gli atti processuali e visionando ore ed ore di filmati. Viene da chiedersi il motivo di questo successo. Tendenzialmente sono tre/quattro le ragioni che portano un documentario true crime a scalare la classifica degli show più visti: la qualità della realizzazione tecnica, l’interesse diffuso per la vicenda, la capacità di proporre nuovi spunti per le indagini e infine il passaparola.
Prendiamole quindi in esame.
Dal punto di vista tecnico la serie, articolata in 5 episodi della durata di circa 45 minuti l’uno, è un prodotto ben fatto, che si inserisce nel genere delle docuserie Netflix che utilizzano un format in gran parte codificato sul modello dei lavori di Joe Berlinger (Conversazioni con un killer: il caso Bundy). Ritroviamo infatti la tendenza a spostarsi avanti e indietro nel tempo, con un calendario e un apposito jingle a scandire i movimenti temporali che seguono in parallelo i punti di vista della famiglia della vittima e di quella dell’uomo condannato per il suo assassino.
Nel racconto la serie utilizza una molteplicità di materiale audio-video, tratto soprattutto da trasmissioni televisive specializzate, dalle telecamere di sorveglianza e dalle intercettazioni a cui sono stati sottoposti tutti i protagonisti della vicenda. E’ proprio questo forse il principale motivo di interesse, dato che consente allo spettatore di cogliere il cuore del dramma, facendogli percepire sfumature emotive altrimenti anestetizzate dal circo mediatico o da divisioni aprioristiche tra innocentisti e colpevolisti. Del resto anche l’eccesso di enfasi porta a far perdere empatia: paradossalmente è proprio quando Bossetti si prende la scena, teatralizzando il proprio racconto con lacrime e atteggiamenti persecutori, che l’empatia nei suoi confronti si fa più labile e ci riecheggia nella mente quel soprannome “il favola” con cui i colleghi lo chiamavano al lavoro.
Una sensazione spiacevole, ma che non cancella la pietas che il racconto porta ad avere per un uomo a cui l’indagine ha tolto non solo il futuro, ma anche il passato (la scoperta della vera identità del padre biologico) e il presente (la scoperta dei tradimenti della moglie). Ci sono poi le interviste ai protagonisti, esclusa la famiglia Gambirasio, di cui si ricorda nei titoli di coda il riserbo; queste interviste sono interessanti nei contenuti, anche se appesantite da modalità rappresentative un po’ troppo patinate.
L’avvocato che fuma un sigaro sfogliando il codice potevamo risparmiarcelo, così come alcune inquadrature di Bossetti in carcere, con la camicia rimboccata sui polsi hanno il sapore del prodotto commerciale più che del documentario. Sono scelte che del resto si inseriscono nell’estetica contemporanea di genere, così come le numerose inquadrature dall’alto, tramite drone, e la lavorazione delle immagini con supporti grafici, come i colori utilizzati per evidenziare il tragitto compiuto da Yara o da Bossetti. Anche la scelta di non affidarsi ad un solo narratore si inserisce in questo catalogo estetico, con risultati peraltro particolarmente efficaci grazie all’audio delle intercettazioni. Per quanto il documentario si dimostri quindi ben fatto, con qualche scelta discutibile e qualche eccesso di movimenti temporali, la qualità della realizzazione non basta a spiegarne il successo.
Yara rappresenta la meglio gioventù che possiamo immaginare. Sorridente, affabile, disponibile, ubbidiente e pronta a scarificarsi per ottenere risultati sportivi. E’ ambiziosa e piena di vita, per molti aspetti non è improprio definirla un esempio. Il fatto che a discapito di questa esemplarità, in un contesto provinciale protetto, agiato e altamente urbanizzato, sia stata vittima di un omicidio così ambiguo e per molti aspetti rimasto inspiegato dopo tre gradi di giudizio, non poteva e non può che emozionare l’opinione pubblica, anche a distanza di anni dalla sentenza definitiva della Corte di Cassazione. E qui passiamo direttamente al terzo punto e cioè alla capacità del documentario di proporre un’ottica diversa, di presentare la vicenda incrinando le già poco granitiche certezze possedute.
Non ci sono rivelazioni nuove o sconvolgenti, ma ci sono domande che in passato non erano state poste davanti al pubblico con uguale fermezza e soprattutto inserite in un contesto strutturato e circostanziato, com’è quello che viene presentato nei cinque episodi del documentario. Nessuno formula un’ipotesi alternativa sull’andamento dei fatti e nessuno, a parte Bossetti e i suoi legali, parla apertamente della sua innocenza. Quello che succede è però che da più parti si sollevano dei dubbi che, come recita il titolo della serie, non sembrano consentire di condannare Bossetti “oltre ogni ragionevole dubbio”. Questo documentario ha il coraggio di prendere una posizione, condivisibile o meno, ma chiara. Lo strumento dialettico utilizzato dell’autore, Gianluca Neri, sembra essere porre delle domande più che dare delle risposte, chiedere un supplemento di cura più che fornire delle spiegazioni esaurienti. Sono strumenti dialettici utilizzati con tatto e discrezione, a partire da una posizione espressa chiaramente fin dal titolo dello show. E’ forse per questa chiarezza che il passaparola, e così arriviamo al quarto punto, ha funzionato nel raccomandare la visione di un prodotto che raggiunge il suo obiettivo.
Ai titoli di coda si sente, soprattutto nello stomaco, il bisogno di qualcosa di più, di avere informazioni e certezze che vadano oltre a quelle raggiunte finora. Al di là della domanda che tutti (o quasi) si sono posti sul fatto che davvero l’assassino sia stato catturato, emerge la necessità di capire qualcosa di più.
E’ forse in questa necessità, in questo senso che manchi ancora qualcosa, qualche tassello decisivo per spiegare la dinamica dei fatti, che risiede il successo di questa serie.
TITOLO ORIGINALE: Il caso Yara: oltre ogni ragionevole dubbio
DURATA MEDIA DEGLI EPISODI: 45 minuti
NUMERO DEGLI EPISODI: 5
DISTRIBUZIONE STREAMING: Netflix
GENERE: Drama Crime Documentary
CONSIGLIATO: a quanti apprezzano il linguaggio visivo dei documentari crime contemporanei, ricchi di intrecci e salti temporali, con una molteplicità di materiale audio video. A quanti vogliono ripercorrere una dolorosa e drammatica vicenda di cronaca che ha emozionato e diviso l’opinione pubblica. E naturalmente per tutti coloro che hanno dei dubbi, se non sull’esito, quantomeno sulla conduzione delle indagini.
SCONSIGLIATO: a quanti cercano un racconto adrenalinico, si aspettano rivelazioni innovative o testimonianza a sorpresa. Stiamo parlando di fatti noti che però vengono presentati in modo sistematico e a supporto di una domanda chiara: siamo sicuri che Bossetti sia colpevole, oltre ogni ragionevole dubbio?
VISIONI PARALLELE: i tanti documentari crime proposti da Netflix che ha fatto di questa categoria uno dei punti di forza del catalogo streaming. Abbiamo già detto, per restare in Italia di SanPa: luci e tenebre di San Patrignano (2020) e di Vatican Girl: la scomparsa di Emanuela Orlandi (2022). Ampliando il panorama a livello internazionale, possiamo ricordare anche: Conversazioni con un killer: il caso Bundy sul serial killer Ted Bundy e Wild Wild Country, sulla storia del guru indiano Osho.
UN’IMMAGINE: mi ha colpito l’immagine delle compagne di Yara, divenute donne, che presenziano in aula al processo. E’ solo un accenno, un fugace refolo che passa sulla pelle. Anche vederla gareggiare, fiera e determinata, fa male perché lascia pensare che forse un giorno sarebbe diventata un’atleta professionista. O forse no, poco importa. In ogni casa sarebbe cresciuta e avrebbe affrontato la vita, sarebbe diventata una donna, come le sue compagne. Al di là della posizione sulle indagini e sulla condanna di Bossetti, Neri ha il merito di aver descritto Yara con tatto e umanità.
Mi piace però anche ricordare i volontari della protezione civile bergamasca che sostengono che è impossibile che, passando e ripassando dal campo di Chignolo, nessuno di loro si sia accorto del cadavere di Yara. Le ricerche erano state condotte per mesi, in modo sistematico da migliaia di volontari. Una straordinaria manifestazione di generosità concreta, fatta di sudore e non di parole. La loro è una forma di obiezione tutt’altro che anti-scientifica, ma che oppone alla fredda evidenza scientifica un misto di esperienza diretta e buon senso. Le due cose non sono necessariamente in antitesi, a patto che qualcuno si dia la pena e si prenda il tempo necessario per dare una spiegazione.
