Manhunt: l’assassinio di Lincoln e il processo alla grande cospirazione

Manhunt ***

In una lettera riportata nella sua biografia (Schiava e libera. Storia di Sojourner Truth pioniera dei diritti civili, Stilo editore), la più importante attivista per i diritti delle donne afroamericane del secolo diciannovesimo riferisce del suo colloquio con il presidente degli Stati Uniti Abraham Lincoln, avvenuto il 29 ottobre 1864. Lincoln era seduto alla scrivania. Quando vide Truth, le andò incontro e le disse: “Sono felice di vederla”. Truth rispose: “Signor presidente, quando lei entrò in carica, temetti che l’avrebbero sbranata, perché mi sembrava simile al profeta Daniele, gettato nella fossa dei leoni”. Lincoln capì immediatamente a cosa si riferisse, ovvero al fatto che nel suo proclama aveva emancipato gli schiavi.

Sojourner Truth, nata in catene, testimone di violenze inenarrabili commesse dai padroni bianchi contro la servitù nera, dopo aver cambiato il suo nome di battesimo e essersi convertita alla chiesa metodista, prese l’impegno di girare l’America per sostenere la causa abolizionista. Il suo celebre discorso, Aint’I a Woman?, è una pietra miliare del pensiero militante nero e femminista. Questa donna analfabeta, che per incontrare Lincoln percorse a piedi tutta la strada dal Michigan fino a Washington D.C, un giorno molto lontano nel tempo (anno 2009, presidenza Obama) sarebbe stata onorata con un busto all’interno del Campidoglio. “Devo dire, e sono orgogliosa di farlo, che non sono mai stata trattata da nessun altro con maggiore benevolenza e cordialità, più di quanto abbia fatto il grande e buon Abraham Lincoln”. E conclude augurandosi che la grazia di Dio gli conceda di essere presidente per altri quattro anni.

Altri quattro anni. Non sarà così, perché il 14 aprile 1865 John Wilkes Booth, giovane attore, sparerà a Lincoln durante la rappresentazione della commedia Our American Cousin al Ford’s Theatre di Washington, ferendolo mortalmente. Fu un evento traumatico. Solo cinque giorni prima, al termine della battaglia di Appomattox, le truppe confederate guidate dal generale Lee, sventolando “non una bandiera bianca ma un misero straccio”, si erano arrese al comandante in capo dell’Armata dell’Unione, Ulysses S. Grant (il futuro diciottesimo Presidente degli Stati Uniti). La guerra civile era finita, ma non per tutti. Manhunt, serie AppleTv+ creata da Monica Beletsky (The Leftlovers, Fargo), racconta la caccia all’uomo successiva all’omicidio coordinata dal Segretario alla Guerra Edwin Stanton.

John Wilkes è un lupo solitario oppure fa parte di un disegno più vasto e complesso? La serie, come il libro di James L. Swanson da cui è tratta, propende per la seconda ipotesi. Booth proviene da una famiglia di attori. Subito dopo aver sparato alla testa del presidente si rivolge al pubblico urlando il motto, attribuito da una certa tradizione storiografica a Bruto, sic semper tyrannis. Così sempre ai tiranni. Per una curiosa coincidenza (o non lo è?), suo fratello si chiama Junius Brutus e con lui ha recitato nel Giulio Cesare di Shakespeare qualche settimana prima.

Dalle indagini emerge una fitta rete di cospiratori. Un odio feroce accomuna i simpatizzanti della causa sudista. Odio per i principi costituzionali basati sull’eguaglianza tra gli uomini, odio per la democrazia, odio per l’ordine repubblicano. Odio soprattutto per Lincoln, che ha il torto di aver combattuto il progetto politico dei secessionisti finalizzato al mantenimento del regime schiavista. Animati dal disprezzo e finanziati da ricchi latifondisti espatriati in Canada, Booth e i suoi complici passano all’azione. L’obiettivo è la decapitazione del vertice del potere ufficiale degli Stati Uniti. I piani di quello che, a tutti gli effetti, è un colpo di stato, prevedono anche l’eliminazione del Vicepresidente Andrew Johnson e del Segretario di Stato William H. Seward. Quest’ultimo viene ferito alla gola e si salva per un soffio. Johnson è risparmiato da atti di violenza, complice la probabile pavidità del suo assalitore designato.

Manhunt è quindi un thriller cospirazionista travestito da dramma storico. I toni da crime story rendono il racconto seducente. L’interpretazione di Tobias Menzies (Game of Thrones, Outlander, The Crown) è esemplare. L’ostinata intransigenza, la volontà di perseguire a tutti i costi i cospiratori sudisti, il puntiglio mostrato nel coordinare le indagini, brillano nella serie quali elementi essenziali del carattere e del profilo umano di Stanton. Il successo dell’operazione allontanò il pericolo di una seconda guerra civile. Stanton, minato nel fisico da un’insufficienza polmonare incurabile, somiglia qui a un eroe romantico, crepuscolare. Nemmeno lui, però, è esente da macchie. Perché strappa e getta nel fuoco diciotto pagine del diario di Booth?

Contro i cospiratori fu istituito un processo straordinario. La decisione di assegnarlo a un tribunale militare, motivata dall’oggettiva condizione della nazione americana, nei fatti ancora in guerra, non può mascherare la perentorietà, quasi vendicativa, delle condanne. A quattro imputati fu comminata l’impiccagione, da eseguirsi il giorno seguente la sentenza, per aver coperto la fuga di Booth o collaborato con lui nella preparazione dell’omicidio. Booth, invece, non arrivò al processo. Un soldato troppo zelante, ispirato da Dio, lo freddò in un fienile al termine della fuga: come Booth mirò alla testa di Lincoln, il sergente Boston Corbett fracassò con un colpo la testa di Booth. Un finale di partita degno della migliore epica western.

Tuttavia, la tesi della “grande cospirazione” fortemente sostenuta da Stanton, che oltre a essere un politico era uno stimato avvocato, non fece breccia nella giuria. Su questo punto specifico, le prove contro gli imputati furono ritenute insufficienti. Jefferson Davis, primo e unico presidente della Confederazione, portato alla sbarra in qualità di mandante, ne uscì indenne.

Merita un plauso la scelta di Anthony Boyle, attore nordirlandese di solida formazione teatrale, per il ruolo di John Wilkes Booth. Boyle, visto di recente in Masters of the Air di Steven Spielberg, è bravissimo nel conferire la giusta aura mefistofelica al suo personaggio. L’ego del libertino Booth è nutrito di vanagloria. “Interpretando Riccardo III”, dice al suo compagno di fuga, l’ingenuo David Herold, “i critici mi hanno definito l’attore più promettente della mia generazione”. L’assassinio di Lincoln è innanzitutto un gesto, un atto performativo, il big bang di un nuovo inizio per far risorgere dalle ceneri “lo stile di vita del sud”. L’azione criminale riscontra anche le previsioni della madre, che alla nascita era rimasta colpita dalla sua bellezza e, guardando le mani, aveva pronosticato per il figlio un luminoso destino sotto la guida della volontà divina.

Nella serie viene evocata la “linea segreta”, una sorta di itinerario presidiato da spie sudiste, utilizzato per favorire l’esfiltrazione all’estero degli ultimi irriducibili. La fuga dell’assassino, l’ambiguità di molte situazioni, gli episodi di crudeltà gratuita fanno di Manhunt un viaggio in chiaroscuro nel cuore di tenebra dell’America. Il ricercato Booth, pur con una gamba rovinata e una taglia sulla testa, propende per una meta più magica che reale. L’attore è sicuro di trovare la meritata gloria a Richmond, Virginia, la ex capitale dei confederati, nonostante questa sia ormai in rovine. L’immagine dei soldati in cammino sulle macerie della città è potente e rinvia alla triste iconografia di guerre a noi vicine. Potrebbe essere una località ucraina bombardata dai russi, oppure Gaza.

Il 14 aprile 1865 è una data spartiacque. Oltre a essere il resoconto fedele di una caccia all’uomo (“il ritardo della cattura di Booth ci fa apparire deboli”, afferma il subentrato presidente Johnson), Manhunt riesce a tratteggiare il periodo storico attraverso provvidenziali innesti narrativi. Il racconto svia, focalizza episodi chiave del passato recente di Lincoln e si sofferma su alcune tappe politiche ed esistenziali più o meno prossime all’attentato mortale. Vi è la scelta di arruolare soldati neri tra le fila dell’Unione. E ancora la decisione di espropriare i latifondisti per trasferire le loro terre ai liberti. È ricordato anche l’evento terribile della morte del figlio di appena undici anni a seguito di un attacco di febbre tifoide, un lutto che nel romanzo Lincoln nel Bardo di George Saunders (Feltrinelli editore) diventa lo spunto per una riflessione filosofica sul tema universale della perdita. La serie mostra il “rituale di dolore” a cadenza settimanale cui si sottopone Lincoln dopo la morte di Willie: la lettura di una pagina del libro preferito dal figlio, a voce alta, perché arrivi anche a lui nell’aldilà.

Il cast annovera attori e attrici che sfruttano a dovere i minuti, non sempre molti, a propria disposizione, tra questi Hamish Linklater (Lincoln), Will Harrison (David Herold), Anne Dudek (Ellen Stanton) e Lily Taylor (Mary Todd Lincoln, la moglie del presidente). Un discorso a parte meritano i personaggi interpretati da Glenn Morshower, Matt Walsh e Lovie Simone, rispettivamente il presidente Andrew Johnson, il medico Samuel Mudd e la schiava Mary Simms, quest’ultima una figura storicamente non esistita ma paradigmatica di molte vicende di schiavi e schiave, arrivate a noi grazie alle migliaia di racconti autobiografici confluiti nel filone letterario della cosiddetta slave narrative.

Johnson, di umile estrazione, nella serie appare nella sua veste di politico conciliante con i poteri forti, fino all’eccesso. Misteriosamente assai poco sconvolto dalla violenza scatenata da Booth e soci, non fu esente da sospetti. Messo alla prova, si dimostrò il peggiore dei presidenti possibili. Timoroso delle reazioni dei latifondisti, cedette alle loro richieste, ritirando i provvedimenti, spesso dirompenti sul piano economico e sociale, firmati da Lincoln. Fu il primo inquilino della Casa Bianca a subire un processo di impeachment. Johnson si scontrò subito con Stanton. In Manhunt è rappresentata l’accesa diatriba dialettica tra i due (“dobbiamo dare loro la dignità… un capitale, una casa, un’istruzione”, dice Stanton con riferimento ai neri affrancati), presto sfociata in aperto ammutinamento. Il Segretario alla Guerra si barricò per tre mesi nei suoi uffici, con l’obiettivo di impedire la sua rimozione e il passaggio dell’incarico a un fedelissimo di Johnson.

Samuel Mudd curò e diede riparo a Booth. Al processo scampò alla pena capitale ma venne comunque condannato ai lavori forzati a vita. In un suo film, Il prigioniero dell’isola degli squali, John Ford lo ritrae benignamente. La serie dà credito alla versione razzista di Mudd e sottolinea l’incredibile ossimoro: nell’animo del dottore convivono, non si sa come, le illuminate verità della scienza medica e gli abominevoli pregiudizi della mentalità schiavista. Mary Simms, la sua serva privata di ogni diritto, è una donna istruita, consapevole di quanto stia accadendo nella sua nazione. “Io voglio inseguire la mia felicità”, afferma con convinzione. Felicità significa terra, lavoro, conoscenza. Felicità significa emancipazione.

La storica Aurélia Michel, nel suo Il bianco e il negro. Indagine storica sull’ordine razzista (Einaudi), a proposito dell’uso politico delle razze, cita il censimento americano e riporta quanto segue: si approfitta del questionario decennale per studiare la popolazione nazionale, introducendo domande a fini epidemiologici, come quelle relative alla cecità e all’alienazione mentale… Il risultato del censimento del 1840 mostra una stupefacente sovrarappresentazione dei “neri folli” negli stati del Nord, grosso modo quelli che proibiscono la schiavitù. L’interpretazione di queste cifre da parte degli schiavisti non si fa attendere: la libertà rende i neri folli ed è bene non esporli a tale pericolo. Solo due anni più tardi un tecnico riscontrò un grave refuso. I dati erano falsati. L’argomentazione della “follia dei neri” ritorna anche in Manhunt. I possidenti terrorizzano l’opinione pubblica ventilando un’imminente deriva anarchica dell’America. Dopo la terra, gli ex schiavi pretenderanno il diritto di voto. Si prenderanno le aziende dei bianchi e infine le loro donne. Il sistema, dicono, andrà in frantumi.

Manhunt non dimentica i moventi economici alla base della reazione sudista. Gli schiavisti in esilio a Montreal minacciano ritorsioni. È in gioco il profitto facile, garantito dallo sfruttamento gratuito di manodopera. Proprio nel 1865 è fondato il Ku Klux Clan. Nel 1870 s’introduce il quindicesimo emendamento della Costituzione che afferma il diritto di voto senza distinzione di razza, colore o condizione anteriore di servitù. Tuttavia, nella “Dixieland”, cioè la cintura di Stati ex schiavisti, si approvano leggi “Jim Crow”, apertamente segregazioniste. La nazione è divisa. La Ricostruzione è la grande scommessa.

Il commento sonoro, raffinato e discreto, è affidato a Bryce Dessner, il chitarrista dei The National. In Manhunt il clima teso seguito all’attentato è sottolineato da alcune scelte cromatiche: la grigiastra lontananza del cielo, il rosso di molto sangue versato, il verde cupo delle foreste. È l’America dei treni a vapori e delle diligenze, degli straccioni senza un dollaro in tasca e dell’eleganza altoborghese mutuata dalle corti europee, dei mezzosangue e dei banditi a cavallo. Un’America spaccata in due, inquieta, sospesa. Un’America vista mille volte ma che riesce, di nuovo, ad affascinare lo spettatore. “Finiamo il lavoro adesso, dobbiamo farlo”, dice Stanton al figlio Edwin Jr, nel momento in cui riceve la notizia della sua nomina alla Corte Suprema. Lo stesso giorno, si accascia e muore. Messaggio agli americani. Il lavoro non è finito.

Titolo originale: Manhunt

Numero di episodi: 7

Durata: 40 – 55 minuti l’uno

Distribuzione: AppleTv+

Uscita in Italia: 15 marzo – 19 aprile 2024

Genere: Historical drama, conspiracy thriller, crime

Consigliato a chi: lascia la gabbia del canarino aperta, ha nostalgia per i cappelli a cilindro.

Sconsigliato a chi: è geloso dei propri baffi, usa messaggi cifrati, non crede al fantasma del fiume.

Letture e visioni parallele:

  • Lo storia illustrata ai bambini: Victor Lloret Blackburn, Abraham Lincoln, Arnoldo Mondadori, 2021.

  • Il romanzo irrinunciabile: Colson Whitehead, La ferrovia sotterranea, SUR, 2016… da cui la serie del 2021 in dieci episodi, ancora disponibile su Prime Video.

  • Il biopic più famoso: Lincoln di Steven Spielberg, disponibile a pagamento su varie piattaforme.

Una poesia: il Corvo di Edgar Allan Poe.

Una meta: Springfield, Illinois.

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