New York 1973. Il ventisettenne Donald, vice presidente della Trump Organization, è appena stato ammesso all’esclusivo Le Club, un ristorante e nightclub al 416 East 55th St. a Manatthan. Si accompagna con una giovane modella ma i suoi occhi sono solo per Roy Cohn, il celebre avvocato che dal processo Rosenberg alle udienze McCarthy, fino all’assistenza di Onassis, dei New York Yankees, del malavitoso Tony Salerno e Rupert Murdoch ha rappresentato uno dei volti chiave del potere conservatore.
Consigliere di Nixon e Reagan, fixer per eccellenza, in grado di manovrare la politica per servire i suoi ricchissimi clienti, Cohn diventa per il giovane Trump un modello e un mentore per uscire dall’ombra paterna e risolvere i problemi con la giustizia.
Negli edifici della Trump Organization si usano politiche discriminatorie per gli affittuari di colore e questo è contro la legge.
Tuttavia Cohn assiste Donald nel trovare una sponda politica ed economica per il suo grande sogno: l’acquisto del vecchio Hotel Commodore sulla 42nd St., vicino alla Central Station, in una zona molto degradata, da rilanciare per farne il simbolo della sua ascesa, la Trump Tower.
Il film racconta poco più di un decennio della vita di Donald Trump, ma è quello decisivo nel trasformare l’impacciato playboy biondo, che non si droga, non beve e non fuma, nel sociopatico arrogante e sprezzante che conosciamo oggi.
Peccato che nel farlo, Ali Abbasi, il danese di origini iraniane di The Border e Holy Spider, non riesca a dirci nulla che non sapessimo già sull’ex Presidente degli Stati Uniti.
E’ evidente che i suoi atteggiamenti, il suo tono sprezzante, la sua retorica da piazzista, i suoi trucchi da baro, li abbia presi quasi tutti da Roy Cohn, comprese le sue celebri tre massime.
La prima: attacca, attacca, attacca anche quando sei in difficoltà e ribalta la prospettiva. La seconda: non esiste una verità, ognuno ha la sua, quindi nega tutto e non ammettere mai nulla. Infine la terza: mai ammettere una sconfitta, dichiara sempre di essere il vincitore, anche quando sei in difficoltà.
Le utilizza ancora, vero?
La sceneggiatura del giornalista Gabriel Sherman è documentata, piena da fatti e di personaggi, da Warhol che Trump non sa chi sia, a Ivana, la modella che diventa moglie e partner in affari, passando per Fat Tony, il gangster che gli fa incendiare il grattacielo, come avvertimento, fino al sindaco Koch che si oppone invano alle sue richieste di incentivi fiscali per la sua tower.
Ma il film è soprattutto un gioco a due con Cohn, potentissimo, influente e decisivo nelle sue battaglie e nella sua stessa costruzione identitaria, poi debilitato dall’AIDS e abbandonato al suo destino di morte a metà degli anni ’80.
Mentre tuttavia Cohn prende sotto la sua ala il giovane ambizioso e con il ricatto, la corruzione e le influenze lo mette sulla mappa di quelli che contano a N.Y., Trump vampirescamente ne succhia la personalità e i modi, fino a farsi negare a telefono e a cacciarne l’amante malato dai suoi hotel, mandandogli il conto da pagare.
L’uno si è trasformato nell’altro e pensa di non averne più bisogno: il film tuttavia non mostra che in realtà l’ascesa di Trump non è fatta solo di successi imprenditoriali, ma anche di clamorosi e costosi errori – come quelli dei casino Atlantic City, che Cohn gli aveva sconsigliato – cause, abusi, violenze.
E soprattutto il film resta ancorato ad una dimensione cronachistica del racconto, mettendo in fila una serie di eventi e di conversazioni, senza riuscire a dirci chi è davvero Donald Trump – cosa difficile assai – ma neppure provare ipotesi o chiavi di lettura, che non sia quella dell’assimilazione osmotica dello stile altrui.
La fotografia mimetica di Kasper Tuxen, capace di restituire grana e formati degli anni ’70 e ’80, le interpretazioni notevolissime di Sebastian Stan, del solito impressionante Jeremy Strong e di Maria Bakalova non sono sufficienti a penetrare il mistero-Trump.
Il risultato? The Apprentice è un film che paradossalmente non dispiacerà al suo bersaglio, ritratto come una canaglia di successo, un figlio di buona donna che acquisisce quel killer instinct di cui il padre gli parla sempre. Un imprenditore che se ne frega delle tasse, delle regole e della comunità in nome di quel truth, justice and the american way, in cui l’egoismo rapace del singolo è l’unica cosa che conta. Su questi principi si è fatta e continua a farsi l’America, in fondo.
Scegliendo poi di isolare la parte iniziale della sua ascesa, il film diventa inevitabilmente apologetico e l’empatia con il suo giovane protagonista che pure all’inizio mostra qualche segno di umanità e qualche scrupolo morale, ne consente un’immediata identificazione: il villain di questo script, è chiaramente Cohn e infatti il film gli riserva il più cupo dei destini.
Poco importa se in Donald Trump di autentico non ci sia nulla, compreso lo slogan reaganiano Let’s Make America Great Again utilizzato trent’anni dopo per la sua ascesa politica: lui ne resta comunque l’interprete più convinto.
Non ci aspettavamo uno Stone d’annata, tutto all’attacco e a tesi, ma neppure un santino elettorale come questo.
Fossi nel candidato repubblicano, mostrerei The Apprentice ai rally elettorali.
Cavallo di Troia.

