Limonov: The Ballad

Limonov: The Ballad **

“Limonov non è un personaggio immaginario. Lui esiste. Lo conosco. Era un teppista in Ucraina, un idolo nell’underground sovietico durante Breznev, un mendicante e poi cameriere di un miliardario a Manhattan, uno scrittore hipster a Parigi, un soldato disperso nelle guerre dei Balcani…” (Emmanuel Carrère)

Chi è stato Ėduard Veniaminovič Savenko?

Nato vicino a Gor’kij nel 1943 e morto a Mosca nel 2020 dopo una lunga malattia, la sua vita è stata raccontata molte volte: nei suoi romanzi, innanzitutto, nel seminale Limonov di Emmanuel Carrère, quindi oggi in un film firmato da Kirill Serebrennikov e scritto da Pawel Pawlikowski e Ben Hopkins.

Limonov – The Ballad pesca a piene mani da ogni fonte possibile, ricostruendo un ritratto soprattutto privato e mettendo un po’ in sordina la sua dimensione politica e ideale, quella più controversa e sovversiva, che l’ha visto protagonista accanto a serbi di Milosevic e Arkan e poi nel suo Paese dopo il Duemila, con il Partito Nazional Bolscevico, mai davvero riconosciuto che gli è costato il carcere per quasi due anni.

Il film comincia nel 1969 in bianco e nero con il giovane operaio Ėduard Veniaminovič che dalla periferia di Kharkov in Ucraina, cerca la sua strada nel mondo letterario russo. Si sposta quindi a Mosca nel 1972 dove frequenta poeti e scrittori lontani dal regime, che vivono tuttavia tutti gli agi della loro posizione apparentemente dissidente, comprese le belle dacie in cui ospitare amici e amanti.

Qui conosce la modella Elena, l’amore della sua vita: galeotto un paio di jeans che il poeta confeziona su misura per lei. I funzionari fanno capire a Limonov, questo il nome d’arte scelto per pubblicare, che non c’è spazio per il suo lavoro in Patria. E così dopo aver sposato Elena, i due si trasferiscono assieme a New York nel 1975, cercando nella patria del consumismo di sopravvivere con l’assegno sociale.

Mentre Elena cerca di affermarsi come modella, inseguendo promesse e compromessi, Limonov si vede rifiutati i suoi lavori: troppo radicale il suo approccio, troppo lontano da ogni possibilità di redenzione o emancipazione. La rottura con Elena è irrecuperabile, la scoperta della bisessualità un altro passo lontano da ogni conformismo.

Nel 1977 Limonov si è rifatto una vita, lavorando come maggiordomo di un ricchissimo uomo d’affari newyorkese. Nonostante continui a scrivere ogni mattina, le porte dell’editoria statunitense rimangono chiuse. L’umiliazione di vedere ospite nella casa in cui presta servizio quell’Yevtushenko che tanto aveva disprezzato nei suoi anni moscoviti lo porta a fuggire ancora.

Lo ritroviamo finalmente in Patria nel 1989 dopo la Caduta del Muro di Berlino, celebrato grazie ai diciassette libri che è riuscito finalmente a pubblicare in Francia, nel suo soggiorno parigino. Era stato proprio Yevtushenko a suggerirgli quella strada.

Nella russa post-sovietica Limonov fonda una rivista politica Limonka e addestra un manipolo di fedelissimi, armati e pericolosi, in un bunker che ospita la sua organizzazione estremista.

Sia pure in confezione internazionale e girato in inglese, il nuovo film Serebrennikov, rimane fedele all’immaginario che il regista russo ci ha mostrato fin da Leto e poi con Petrov’s Flu e La moglie di Tchaikovsky: la fluidità della sua messa in scena, il caos creativo che genera, l’alternanza di formati e illuminazioni è funzionale ad un racconto che occupa oltre trent’anni della vita del suo protagonista.

Punteggiato dalla musica dei Velvet Underground, Limonov – The Ballad seleziona nella sterminata biografia di Ėduard Veniaminovič alcuni momenti essenziali, li isola nel tempo e nello spazio, cercando di restituire in qualche modo la contraddittorietà del personaggio, poeta e operaio, critico di Breznev ma non dissidente, fedele al KGB ma non ai politici russi, poi militante estremista e nazionalista, dopo aver vissuto a lungo all’estero, in Europa e negli Stati Uniti.

Se il libro di Carrère riusciva a restituire tutta la complessità ideologica e a mostrare i molti volti di un uomo capace di vivere tante vite, attraversando la Storia sempre di traverso, il film è inevitabilmente meno ricco, scegliendo di privilegiare, soprattutto nella prima metà la dimensione privata di Limonov, il suo tentativo di affermarsi come scrittore, in parallelo con la sua lancinante storia d’amore con Elena.

Quando lei esce di scena il film sembra perdersi e continua a saltare nel tempo con didascalie e puntualizzazioni un po’ pedanti.

In una sola scena ci sembra di riconoscere il vero Limonov: quando una sua intervista radiofonica termina con un bicchier d’acqua lanciato in faccia ad uno dei suoi interlocutori e una bottiglia spaccata in testa all’altro.

Molto più sfumate restano le riflessioni politiche di Limonov sulla Russia prima e dopo la glasnost e sull’Europa, così come la sua attività di leader estremista e miliziano, che è relegata ad un finale un po’ troppo consolatorio.

Non so se il ritratto sarebbe piaciuto al vero Ėduard Veniaminovič, inconsapevole dell’esistenza di Taxi Driver pur vivendo a New York in quegli stessi anni, e intellettuale dalle posizioni radicali: il film di Serebrennikov riesce sovente a restituire la vitalità febbrile del personaggio, quell’afflato (anti)eroico che la stessa Elena gli riconosceva, ma forse ne smussa troppo le asprezze, ne nasconde le atrocità e le idee politiche inaccettabili, oggi ancor più di allora.

Serebrennikov non rinuncia al suo stile che utilizza il piano sequenza in movimento come lo strumento perfetto per accompagnare i suoi personaggi, sia con funzione puramente narrativa, come accade ad esempio in quello che mostra i cunicoli del bunker in cui si è organizzata la frangia sovversiva del movimento di Limonov, sia in una funzione diremmo sintetica, come accade quando il protagonista attraversa il set su cui campeggiano gli eventi più significativi degli anni ’80 e ne mostra la finzione.

Molto complesso il lavoro di Ben Whishaw sul personaggio, che lo obbliga a molte trasformazioni anche fisiche attraverso gli anni e le epoche, cercando di mostrare la durezza del personaggio anche nelle fragilità sentimentali, nelle meschinità d’artista, e nel degrado newyorkese. L’attore inglese non sembra sempre riuscire a restituire la gravitas del personaggio, il suo tremendismo e la sua audacia sconsiderata: in una parola, la sua attitudine punk.

Forse è un peccato che questo personaggio così intimamente russo sia interpretato da un attore inglese e parli in tutto il film nella lingua di Shakespeare, sia pure con accento d’ordinanza: se è vero che il linguaggio influenza il pensiero, è evidente che i problemi di questo adattamento cominciano proprio da questa scelta originale.

Irrisolto.

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