Atteso, ripensato, riscritto e infine prodotto in prima persona, come un esordiente alle prime armi vendendo parte del suo vigneto nella Napa Valley, Megalopolis di Francis Ford Coppola arriva a Cannes carico delle attese e dei dubbi sollevati dalla prima proiezione privata californiana per addetti ai lavori, che non ha convinto nessuno dei potenti di Hollywood a distribuire il film nel Grande Paese.
Il suo è un film velleitario, stratificato, incompiuto, pieno di troppe cose e di troppe immagini: si sentono tutti i decenni trascorsi a immaginarlo invano. Come spesso accade in queste occasioni, il risultato è troppo ricco in certi momenti e improvvisamente vuoto in altri.
La storia prende a prestito nomi e suggestioni della storia romana per raccontare la storia di una New Rome del XXI secolo, vicinissima alla New York dei nostri giorni, in cui l’architetto Ceasar Catilina cercando di salvare la moglie perduta, ha inventato un materiale dalle proprietà e applicazioni infinite, il megalon, con cui ha vinto il premio Nobel e che spera di utilizzare per costruire la sua Megalopolis, uno spazio tattile, immateriale, immerso nel verde.
La sua utopia è contrastata dal sindaco Frank Cicero, che fin da quando era procuratore distrettuale ha indagato su Caesar e che ora non può tollerare che la figlia Julia, socialite frivola e disinibita, si sia offerta di lavorare per Catilina, creando un canale di comunicazione tra lui e l’amministrazione.
Nell’ombra tuttavia trama Clodio, da sempre invidioso dei successi del cugino Caesar, che spera di ereditare da Crasso Hamilton la guida della grande banca della città. Con lui la giornalista Wow Platinum, già amante di Caesar e ora moglie dell’anziano Crasso.
La costruzione del mondo di domani si intreccia con le miserie di quello di oggi. Ideali, sogni e cultura si scontrano con la necessità della politica, con il populismo e i giochi di potere.
In una civiltà che sta degenerando velocemente c’è spazio per i giochi di un nuovo Colosseo, come per i saturnali di fine anno. Tra questi due momenti si gioca la visione di Caesar.
Il film si apre e si chiude con due scene in cui il protagonista sembra fermare il tempo, manipolandolo a proprio piacere. E’ un potere che perde nel corso del film e riacquista quando si innamora. Ma le prospettive sono diverse, nel primo caso è solo all’ultimo piano del Chrisler Building e sembra giocare con la gravità, nel secondo l’inquadratura è dal basso e mostra Caesar nella sua nuova famiglia finalmente riunita.
In fondo questo Megalopolis non è un film sulla dimensione dello spazio pubblico, sulle ambizioni di un visionario, quanto un’altra variazione sui temi del tempo, così come lo era l’adattamento del libro di Eliade, Un’altra giovinezza, e come lo sono molti dei suoi lavori successivi alla tragica morte del figlio Giancarlo.
Cosa dire di quella stanza della memoria in cui Caesar immagina di incontrare ancora una volta la moglie perduta, una sorta di camera verde truffautiana in cui il passato diventa un’illusione del presente?
Caesar ad un certo punto nei suoi deliri febbrili urla “non voglio che i miei pensieri vengano intaccati dal tempo!” e in fondo potrebbe essere lo stesso per l’ottantacinquenne Coppola, che non sembra rassegnarsi. Il film si apre con il ticchettio di un orologio e poi quel suono e i quadranti appaiono diverse volte a segnare un’ossessione molto più precisa. “Parli sempre del futuro ma sei schiavo del passato“: la battuta vale per Caesar, ma anche per il suo regista, da sempre funambolico sperimentatore e avanguardista, ma costretto a venire a patti continuamente con i limiti del capitale hollywoodiano.
Il film funziona meglio e assume uno spessore diverso, quando dai personaggi emerge la personalità titanica del loro creatore, quando la dimensione autoriale si fa più evidente e trascende le immagini.
Meno centrali, seppur presenti in modo chiaro, i temi ricorrenti nel cinema di Coppola della famiglia come unica ancora di salvezza in un mondo ostile e della lotta del singolo contro l’establishment, che Ceasar incarna pienamente, ma che si risolve in ostilità che appaiono più personali che non ideologiche.
Curiosamente Coppola arranca proprio là dove dovrebbe eccellere: la struttura narrativa è veramente disastrosa, sfilacciata, esile, costringendo ad un continuo ricorso ai cartelli e alla voce off di Fundi, l’autista di Caesar, che funge narratore onniscente.
Ancor meno convincenti i protagonisti quando parlano: in un profluvio senza fine di citazioni e aforismi, alcuni persino in latino, i personaggi suonano costantemente fasulli, artificiosi, persino per una fiaba che vuole evocare l’Impero Romano. Quando in un dialogo inserisci una citazione è perché vuoi che il pubblico se la ricordi, quando ne inserisci cento invece è evidente che stai semplicemente scrivendo male.
I protagonisti di questa storia non prendono mai vita, rimangono appiatti in una dimensione che può vivere solo nelle pagine di una brutta sceneggiatura.
Nonostante Adam Driver ci metta tutto il suo piccolo talento, di Caesar e del megalon ci importa assai poco, così come dei suoi dissidi incomprensibili con il sindaco Cicero. Per non parlare del vero villain di questa storia, il Clodio di Shia LaBeouf, che passa di eccentricità in eccentricità, ma le cui motivazioni restano terribilmente banali.
Nathalie Emmanuel, già in Game of Thrones, è il volto migliore di questo film, ma il suo personaggio è così mal scritto che sembra sempre costantemente al servizio degli altri, a colmare continui buchi piuttosto che a raccontare l’evoluzione del suo carattere.
Inutile dire che la presenza di Talia Shire e Jason Schwartzman, così come quella di Dustin Hoffman e John Voight, la coppia dello straordinario Uomo da marciapiede, è a dir poco esornativa, in ruoli che sono poco più significativi di un cameo. Persino Fishburne, se non ci fosse la sua ingombrante voce narrante, avrebbe una parte minima e assai poco rilevante.
Tutta la struttura di Megalopolis soffre dannatamente, quasi che si trattasse di un film costruito con lo stesso materiale impalpabile scoperto da Caesar. Il film ha una generosità e un’ingenuità che non possono lasciare indifferenti. Resta così soprattutto la superficie, ovvero le immagini, che il fidato Mihai Mălaimare Jr. immerge in una luce dorata crepuscolare e che lasciano Coppola a giocare ancora una volta con una tavolozza infinita di trucchi, dominanti, saturazioni e che trovano la loro massima espressione nelle dissolvenze incrociate e degli split screen tripartiti che sembrano voler contenere bulimicamente tutto quello che il regista ha girato, dando sfogo ad una fantasia che non ha più alcun freno.
Il film ne resta soggiogato e sbilanciato. Ci sono voluti infatti due montatori, Cam McLauchlin e Glen Scantlebury, per cercare invano di dare forma ad un film che vuole essere inutilmente classico, senza averne lo spirito.
E’ il solito peccato di Coppola, nato sperimentatore, ma costretto a giocare spesso alle regole del cinema classico per salvarsi la vita. La dualità rimane irrisolta anche in questo Megalopolis, che non riesce davvero a rispettare canoni narrativi tradizionali e che è troppo poco audace per scegliere la strada di un racconto poetico, astratto, slegato da ogni convenzione.
Il risultato scontenterà tutti, nonostante in mezzo a troppe cose ci siano anche immagini preziose e trovate che riscrivono il cinema ancora una volta, come accade ad un certo punto della proiezione, quando un attore sale sul palco per recitare dal vivo, come in un teatro, il ruolo di un giornalista.
Inutile dire che a Coppola sarebbe servito un grande produttore: ma ci litiga sin dai tempi di Bob Evans e della Paramount e questa volta ha deciso di fare da sé. Oppure avrebbe dovuto affidarsi a qualcuno che mettesse ordine nelle idee raccolte per troppi anni. Ma il compito l’ha assegnato al figlio Roman – a lungo collaboratore di Anderson – che evidentemente non è stato capace di arginare la confusione.
Difficile che il film recuperi il suo investimento, incapace di farsi davvero evento, se non come testimonianza di sé, ovvero l’ultimo lavoro di uno dei Maestri della New Hollywood.
Megalopolis resta un segno infranto, uno di quei film maledetti di cui è lastricata la storia del cinema.
Lo si guarda con occhi benevoli, ma è difficile amarlo davvero.


peccato!