Get Gotti: l’ultimo padrino di New York alla sbarra

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Quando il 16 Dicembre del 1985 Paul Castellano, capo clan dei Gambino, viene freddato su di un marciapiede di Manhattan insieme al suo Vice, Tommy Bilotti, appare a tutti chiaro come il mandante sia un altro membro della famiglia, John Gotti. In un mondo che cambia rapidamente Gotti sembra rappresentare il futuro della nuova mafia: più disinibito del predecessore in merito alla diversificazione degli affari, senza vincoli legati alla tradizione, capace di riscuotere un crescente successo nell’opinione pubblica. Gotti è infatti un ottimo comunicatore: la sua eleganza, sicurezza, determinazione ne fanno un’icona, ma proprio per questo lo espongono agli appetiti delle agenzie investigative. Incastrare Gotti rappresenta un successo anche dal punto di vista mediatico: il problema però non è tanto arrestarlo, ma riuscire a farlo condannare, come dimostrano i procedimenti andati a vuoto tra il 1986 e il 1992.

E’ importante definire con esattezza ciò di cui parla la miniserie per evitare fraintendimenti: il titolo circoscrive infatti l’oggetto del racconto e cioè l’impegno delle forze dell’ordine per catturare e condannare John Gotti, nuovo capo della famiglia Gambino: attraverso gli anni assistiamo a numerosi processi prima di vederlo finalmente condannato, al quarto tentativo, nel 1992. Gotti è uno dei criminali più famosi e intoccabili della città, che riesce a farla franca (da qui il soprannome The Teflon Don) grazie alla corruzione e alla fragilità degli impianti accusatori, basati per lo più su testimoni di dubbia affidabilità. E’ solo con l’accoppiata tra le registrazioni e le dichiarazioni di un pentito eccellente, il suo Vice Sammy Gravano, che si creano le condizioni necessarie per la condanna di Gotti.

La caccia al boss è condotta da una Task Force incaricata di debellare la criminalità organizzata (OCTF) e dall’FBI. Entrambe le squadre riescono a porre delle cimici all’interno dei locali gestiti e frequentati dai mafiosi, anche se in periodi diversi. Il loro impegno è descritto con efficacia e non mancano i particolari divertenti, come quello di un agente nascosto in una scatola di cartone di un frigorifero che attende la notte per introdursi nel club e posizionare un microfono. Capita anche di dover spostare le cimici spia perché il rumore della macchina del caffè copre i discorsi dei presenti o di confondere un film in cui si parla di omicidi con una conversazione criminale. Al di là delle situazioni divertenti, il lavoro delle forze dell’ordine è descritto nei minimi dettagli: purtroppo però le divergenze tra le agenzie investigative nuocciono alle indagini. Solo quando l’FBI e l’OCTF decidono di condividere le rispettive registrazioni, invece di custodirle gelosamente, si creano le condizioni per il successo.

Il racconto è situato in un periodo storico preciso, gli anni ’80, celebrati come un’epoca di grande vitalità ed energia, tra musica dance e luci psichedeliche. La scelta, particolarmente felice, è quella di intrecciare due diversi punti di vista, quello dei malavitosi pentiti e quello dei loro cacciatori, ovvero gli uomini dell’FBI e dell’OCTF che si presentano con facce, vestiti, modi di esprimersi e di agire molto diversi tra loro. I pentiti, tra cui anche la moglie di un mafioso, danno un sapore del tutto particolare alla narrazione perché esprimono chiaramente il piacere che provano a raccontare il loro punto di vista sulla vicenda. C’è un narcisismo di fondo che non passa inosservato nelle loro dichiarazioni.

Come da prassi del genere documentario crime ci sono poi altri interventi, in particolare di avvocati, reporter e giornalisti, per arricchire la descrizione degli eventi con molteplici punti di vista.

La precisione storica e la capacità immersiva delle narrazioni docucrime targate Netflix non sono una novità, possiamo darle come assodate. Le serie di Joe Berlinger (si vedano le stagioni di Conversazioni con un killer), ne sono un esempio perfetto. Situare storicamente un evento porta con sé anche delle considerazioni sul periodo storico e da questo punto di vista la serie di Sebastian Smith si limita a timidi accenni a come i media abbiano speculato su John Gotti, trasformandolo in un’icona popolare e contribuendo a creare un mito che solo il dibattimento processuale del 1992 avrebbe poi intaccato. Nella serie si ricorda più volte il fatto che la rivista Time abbia dedicato al boss una copertina, ma non si analizza in alcun modo come questo sia stato possibile. C’è piuttosto la condanna, da parte degli addetti ai lavori, per la sovraesposizione mediatica di Gotti, ritenendola una delle ragioni della sua caduta, senza che venga analizzato come e perché i media hanno incrementato la salita alla ribalta da parte di questo violento criminale. E’ come se i media volessero presentarlo con una categoria per noi familiare e cioè quella dell’antieroe. L’aura mediatica che circonda Gotti lo rende agli occhi del pubblico qualcosa di diverso dal tipico criminale di strada, violento e selvaggio: lui è tutto il contrario, almeno in apparenza. Ha modi educati, si veste con gusto e cura, ha amicizie influenti tra le star dello spettacolo, firma autografi e fa foto con i molti newyorkesi che gli si avvicinano. E’ soprannominato “The Dapper Don-Il padrino azzimato”. Gli abitanti di Little Italy ne parlano con rispetto e gratitudine: lui e i suoi uomini garantiscono la sicurezza nel quartiere e proteggono gli abitanti.

La comunicazione di Gotti si inserisce pienamente nella rivoluzione che inizia negli anni ’80 del secolo scorso e che di fatto rappresenta l’alba della nostra società dell’informazione tecnologica. E’ proprio in quegli anni che si sono infatti sviluppate non solo le tecnologie, ma anche i modi di fruizione, personalizzati e specializzati, che ancora oggi contraddistinguono il consumo culturale e mediatico. E’ del resto proprio alla tecnologia che Gotti deve imputare la sua condanna; gli uomini dell’FBI infatti la utilizzano per trovare le prove per incastrarlo: una telecamera, posta ad oltre due isolati di distanza, riesce a riprenderlo fuori dal suo club nel Queens, insieme agli altri membri della famiglia Gambino. Una prima importante prova dell’esistenza di una routine, di una organizzazione a cui le cimici all’interno del club conferiscono la qualifica di ‘criminale’. Esse permettono agli agenti di ascoltare i racconti della mafia, ricostruire la sua struttura organizzativa, scoprire i delitti di cui Gotti è mandante e quindi impostare un caso di RICO (Pattern of Racketeering Activity). Non sono tanto i pentiti, che pure servono, a rappresentare la chiave di volta per la vittoria in tribunale: sono le registrazioni che meglio e più di ogni altra cosa descrivono la violenza di Gotti, portandolo dritto all’ergastolo.

Complessivamente la serie mantiene sempre un ritmo discreto e ha la compattezza necessaria per essere esaustiva senza scadere nella banalità. E’ difficile però non seguire le vicende con la consapevolezza che prima o poi le intercettazioni porteranno il Padrino in prigione e questo naturalmente toglie tensione e interesse alla narrazione. Certo ci sarebbe piaciuto sapere qualcosa di più sull’uomo Gotti, di cui invece sappiamo pochissimo, a parte intuire i tratti del suo carattere dalle conversazioni e dalle reazioni. Anche sull’organizzazione della mafia e sulla sue attività ci fermiamo solo alla superficie, ad esempio nulla sappiamo dell’intricato reticolo di società creato da Sammy The Bull Gravano.

Sarebbero queste delle mancanze, se la serie non volesse chiaramente soffermarsi sulla cattura di Gotti, come detto in precedenza.

Restano comunque delle occasioni perse: soprattutto il discorso sulla comunicazione e sul desiderio di apparire che ha portato proprio Sammy Gravano, uscito di prigione dopo 5 anni, a diventare oggi un affermato You Tubber con 578.000 iscritti al suo canale personale. Del resto le regole d’oro della mafia a cui si atteneva Paul Castellano (“Never go after another made man’s wife, don’t deal drugs and never cooperate”) erano state spazzate via proprio da Gotti: e quindi che un traditore, un informatore (“a rat”) possa non solo essere sopravvissuto, ma aver acquisito notorietà non stupisce. Anzi, rappresenta un ulteriore conferma di come da Gotti in poi la mafia non sia stata più la stessa.

TITOLO ORIGINALE: Get Gotti

DURATA MEDIA DEGLI EPISODI: 50 minuti

NUMERO DEGLI EPISODI: 3

DISTRIBUZIONE STREAMING: Netflix

GENERE: Crime Documentary

CONSIGLIATO: A chi cerca un’analisi della personalità di Gotti o del contesto sociologico criminale della mafia newyorkese.

SCONSIGLIATO: a chi cerca un documentario ben fatto sulla cattura e la condanna di uno dei criminali più famosi degli ultimi anni.

VISIONI PARALLELE: ci sono diversi film i cui protagonisti si ispirano più o meno direttamente alla figura del padrino John Gotti: tra questi ricordiamo Gotti – il primo padrino (2018) interpretato da un (non memorabile) John Travolta e Terapia e Pallottole (1999), con Robert De Niro.

Per quanti invece volessero approfondire il contesto criminale della mafia newyorkese da un punto di vista più ampio, allora consigliamo la docuserie Netflix del 2020 Fear city: New York contro la mafia, per comprendere l’impatto delle organizzazioni criminali nella vita quotidiana della Grande Mela tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80 del secolo scorso.

UN’IMMAGINE: La serie si conclude con una frase di uno degli avvocati coinvolti nel processo che sembra rappresentare anche il punto di vista degli autori: “Se c’è un responsabile della distruzione della mafia non sono io, non è l’FBI, non sono gli altri procuratori, ma è … John Gotti”.

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