C’è ancora domani

C’è ancora domani **1/2

Roma, primavera del 1946.

La prima carezza del risveglio è uno schiaffone che Ivano rifila alla moglie Delia: è solo la primissima scena del film, ma è una sorta di dichiarazione d’intenti. Siamo in un basso popolare, la guerra è finita da poco, gli americani sono ancora per strada a mantenere l’ordine pubblico. Ma quello che conta davvero accade in quelle stanze polverose abitate dalla coppia, assieme ai tre figli e al nonno Ottorino, uno strozzino di mezza tacca, allettato ma ancora capace di sconcezze e volgarità.

Ivano fa il tombarolo, mentre Delia si occupa di ogni questione casalinga e di mille lavori con cui arrotonda i magri guadagni del marito: aggiusta gli ombrelli, rammenda i reggiseni, fa le punture ad un anziano notaio. Le sue mattine passano sempre uguali e veloci, in una routine spezzata solo dalle chiacchiere con l’amica Marisa, che ha un banco di frutta al mercato, con un soldato afroamericano che vuole aiutarla e con Nino, un amore di gioventù, che sta per trasferirsi al nord, in cerca di lavoro e fortuna.

A casa l’aspettano i modi rudi di Ivano, il suo disprezzo costante, condito da violenze psicologiche e fisiche. Testimone muta di questo troppo comune interno familiare è la figlia Marcella, che si è invaghita di Giulio, figlio del proprietario di un bar gelateria. Ivano, che non ha voluto mandarla a scuola, la spinge verso il matrimonio con quella famiglia piccolo borghese.

Quando una mattina Delia riceve una lettera personale e subito la nasconde, il pensiero corre a Nino che le ha chiesto di scappare con lui...

Il film di Paola Cortellesi, al suo debutto come regista su una sceneggiatura scritta con Giulia Calenda e Furio Andreotti, è sorprendente e coraggioso.

Utilizza un contesto storico ormai lontano nel tempo per poter mostrare nel modo più diretto possibile tutta la brutalità di una relazione degradante e violenta. Delia ha “il difetto di rispondere“, come dice il suocero Ottorino. E non è cosa da poco, in un’epoca in cui ci si aspetta che le donne tengano la “bocca chiusa“.

A Paola Cortellesi non manca una certa audacia nel cercare di bilanciare con grande intelligenza e anche con una certa imprevedibilità le istanze femministe contemporanee con un’evidente vena popolare, un certo didascalismo nell’individuazione dei caratteri e dei temi in gioco con il tentativo di non inseguire omaggi e modelli del passato, che siano quelli del neorealismo rosa come del melò degli anni ’50.

Immerso in un bianco e nero nitido che richiama immediatamente la Roma di quel secondo dopoguerra, si avvicina piuttosto alla sensibilità dei Pietrangeli e degli Scola, nel suo ritratto di una donna sola, vittima di una dimensione familiare opprimente e intollerabile.

Una dimensione terribilmente ordinaria, figlia di un retaggio patriarcale comune, diffuso, trasversale ai ceti e alle classi sociali, che non suscita nessuna rivolta, ma neppure una reazione, se non quella ottusa della figlia Marcella.

Dopo il primo schiaffo di Ivano si segue il film con un’ansia inquieta che il tono leggero e gli elementi di pura commedia non riescono mai a smorzare, se non per qualche secondo. Il crescendo drammatico su cui è costruito il film si scioglie solo alla fine con una sorpresa che mette ogni cosa in una luce diversa, finalmente dignitosa e consapevole, anche se non priva di contraddizioni.

Infatti quel finale è una promessa di riscatto personale e collettivo e una sorta di manifesto d’intenti, tanto politico, quanto il film ci era parso sino a quel momento intimo e privato. Ma se dal 1946 ad oggi dal punto di vista legislativo le condizioni delle donne sono molto cambiate, è nel privato familiare che la violenza continua a perpetuarsi immutabile.

Se quindi il tentativo esplicito è quello di parlare alle donne di oggi, più che il ricordo di un momento storico identitario e collettivo pur fondamentale, occorreva dare un messaggio diverso a coloro che sono nella stessa condizione di Delia e non trovano la forza di lasciare uomini abusivi e relazioni insostenibili. E qui purtroppo il film perpetua l’idea che “per il bene dei figli” si possa continuare a subire.

Nel film non tutto funziona come dovrebbe, la regia è talvolta poco sorvegliata, soprattutto quando cerca di evadere dal contesto realistico, con una serie di scelte musicali diacroniche (Nada, Concato, Dalla, Silvestri assieme a Rabagliati e Bini) o con la coreografia della violenza di Ivano trasformata in un balletto che fa apparire e scomparire i segni sul corpo di Delia.

Se l’utilizzo di A bocca chiusa o La sera dei miracoli è tuttavia finalizzato ad accentuare l’elemento emozionale delle due scene in cui appaiono, riuscendoci perfettamente e integrandosi in modo singolare nel testo del film, l’idea di non indugiare voyeristicamente sulla violenza potrebbe anche essere interessante, ma finisce per depotenziarne l’effetto. Cortellesi è molto più efficace in questo caso quando usa le ellissi: basti pensare all’orrore di quelle finestre di casa che si richiudono pudicamente sull’ennesima punizione di Ivano.

Valerio Mastandrea e Giorgio Colangeli hanno il compito ingrato di interpretare due uomini terrificanti, eppure ordinari, figli di un retaggio culturale che si tramanda di padre in figlio e che parla il linguaggio della violenza non conoscendone altro. Mastandrea poi ci mette giusto un po’ di fragilità e tenerezza in modo da evitare di fare del suo Ivano un mostro a senso unico.

Mai così convincente a cinema Emanuela Fanelli, a cui la regista affida il ruolo di Marisa, l’amica emancipata di Delia.

Lontana dai ruoli interpretati sinora, Cortellesi si ritaglia un personaggio che sembra dimesso, immobile, ma che in realtà cerca di costruire a poco a poco le condizioni di un cambiamento. Forse non quello ideale, ma quello che lei ritiene possibile. Non si fa scrupolo di mandare all’aria il matrimonio della figlia nel modo più spettacolare e imprevedibile e di destinare i soldi risparmiati dal vestito nuziale, agli studi di Marcella. Questo sì un gesto profondamente, intimamente politico.

Un gesto che si rispecchia in quella dedica finale a sua figlia: un augurio e un monito al contempo a non chiudere mai la bocca, a non chinare il capo, a non accettare quello che altre donne, qui e ora come nel passato, hanno dovuto subire.

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