Il nuovo film di Giorgio Diritti, nasce dalla storia degli Jenisch, nomadi di origine germanica perseguitati nella Confederazione Elvetica fin dall’Ottocento e poi in modo scientifico a partire da 1926 quando, in pieno clima di cultura eugenetica e di pulizia della razza, Alfred Siegfried diventò responsabile della sezione Scolarità Infantile della fondazione Pro Juventute. Convinto della necessità di ridurre il numero degli Jenisch attraverso la sterilizzazione e il divieto di matrimonio, fondò il programma Hilfswerk fur die Kinder der Landstrasse (“Opera di assistenza per i bambini di strada”) che rimase attivo fino al 1972. Gli Jenisch erano identificati come una piaga da estirpare. I figli venivano sottratti ai genitori, affidati, dopo un cambio di nome, a collegi, a singole famiglie o internati in istituti psichiatrici. Un genocidio che riguardò tra i 600 e i 2.000 bambini, e che fu oggetto di una lunga causa legale che si concluse solo nel 1987: la Confederazione elvetica si scusò con gli Jenisch, riconoscendo la propria responsabilità morale e politica nel loro genocidio.
Lubo Moser è un artista di strada, assieme a sua moglie Mirana e ai suoi tre figli gira su un piccolo carretto itinerante. Lo incontriamo ne 1939, Nel Cantone dei Grigioni vestito da orso, mentre si esibisce per la gioia dei bambini e degli adulti, radunati in una piccola piazza.
Dopo lo spettacolo il suo carro viene fermato e lui prelevato perchè richiamato alla leva, per pattugliare i confini minacciati dalla possibilità di un’invasione tedesca.
Mentre presta servizio sotto le armi, il cugino gli comunica che la moglie è morta in seguito a una colluttazione con la polizia che le stava sottraendo i tre figli. Ormai solo al mondo, Lubo accetta di accompagnare un giovane austriaco di nome Bruno Reiter in un lavoro da fare di notte, vicino al confine.
Reiter è un ebreo a cui alcune famiglie austriache hanno affidato i loro beni più preziosi e le loro ricchezze, per trafugarle nella Svizzera neutrale. Intuendo una possibilità Lubo uccide Bruno, prende il suo nome, le ricchezze che trasporta e la sua Mercedes, ricominciando una nuova vita in Svizzera, con un unico obiettivo: cercare di ritracciare i suoi tre figli, entrati nel programma delal Pro Juventute.
La sua grande ricchezza e i gioielli che commercia lo rendono invisibile durante la guerra. Tuttavia la sua ricerca si rivela vana.
Negli anni ’50 conosce Margherita, una ragazza di origine italiana che lavora in un albergo di Bellinzona. Per lei e per Antonio, figlio del suo primo marito, acquista una villa sul Lago Maggiore: la donna è incinta e Lubo vuole per il bambino che porta in grembo un’esistenza diversa.
Solo che uno degli austriaci che aveva affidato le sue ricchezze a Bruno Reiter, sopravvissuto alla Shoah avanza accuse nei suoi confronti e l’ex commilitone Monti, diventato nel frattempo commissario a Bellinzona, finisce per unire tutti i puntini…
Il film di Diritti è un grande romanzo impaginato con ritmi solenni, nel tentativo di fare del suo Lubo Moser un testimone del tempo.
Attraversando vent’anni di storia elvetica, il suo protagonista rimane un uomo perduto, un padre che non riesce ad esercitare il suo ruolo. Come nelle migliori storie di guerra la sua ricchezza viene dall’omicidio. Tuttavia non è lui l’anima nera di questa storia, in cui è infine l’unico a scontare le proprie colpe.
C’è infatti un piano diverso, inattingibile anche ad un uomo facoltoso come Bruno Reiter, nel quale le migliori intenzioni sono il paravento di una pulizia etnica scientificamente orchestrata.
Il film di Diritti è verosimilmente troppo lungo e fin troppo paradigmatico, soprattutto quando alla sparizione della prima famiglia per conto della Pro Juventute, costruisce un destino per certi versi simile anche alla seconda.
Il copione scritto con Fredo Valla, adattando il romanzo Il seminatore di Mario Cavatore, indugia nel melodramma, forza le svolte narrative ed allunga inutilmente con una seconda storia, quello che avrebbe dovuto essere il racconto di un’ossessione frustrata.
L’adattamento avrebbe dovuto tradire probabilmente il romanzo in modo più radicale. Invece si sente il peso delle pagine, nella fluviale messa in scena di Diritti.
Il film ci mette troppo ad arrivare a destinazione e pian piano perde forza, rispetto alla centralità del personaggio e della storia di Lubo: se Diritti ha dichiarato di aver scelto questo soggetto per le riflessioni sul “senso di giustizia, sulle istituzioni, sul senso dell’educare e dell’amare”, il suo lavoro non sempre riesce ad essere coerente con queste premesse.
Se negli anni della guerra è efficace nel mostrare come la violenza e la morte si insinuino nelle vite degli uomini, modificandone i percorsi, ma lasciando spazio anche per il più puro dei sentimenti, quello per il destino dei propri figli, la parte ambientata negli anni ’50 è assai meno centrata e ridondante.
Peccato perchè dentro Lubo c’è un film giusto e necessario, che tuttavia avrebbe richiesto maggior coraggio nello sfrondare e distillare i suoi temi.
Franz Rogowski è come al solito formidabile, in questo caso anche piuttosto trattenuto e minimale, nella parte di un uomo in fuga da se stesso e costretto ad occultare i suoi pensieri e i suoi obiettivi costantemente.
Il film poggia interamente sulle sue spalle e la scelta non avrebbe potuto essere più adeguata.
Tradito da tutti, persino da Monti, che non osa rivelargli il destino dei suoi bambini, a Lubo non resta che la sua piccola fisarmonica: l’aria che l’attraversa diventa il suo respiro, la musica che emette l’unica fonte di gioia e libertà.

