Sono passati otto anni dall’ultimo sfortunato e profetico film di Michael Mann, quel Blackhat che incrociava cyberterrorismo, ecologia e monete digitali, in un thriller che solo nella sua versione director’s cut riusciva a rendere perfettamente l’immaterialità volatile del pericolo.
A lungo cullato dal suo autore, Ferrari è invece l’adattamento parziale del libro di Brock Yates, Enzo Ferrari: The Man and the Machine, che si focalizza sull’anno 1957, quando la scuderia è in crisi, messa in difficoltà dalla concorrenza della Maserati, le vendite toccano appena le 98 autovetture, la morte del figlio Dino è ancora un ricordo fresco e doloroso e il Drake deve gestire faticosamente la gelosia della moglie Laura, che detiene il 50% dell’azienda e viene a scoprire una verità che tutti a Modena conoscono già: ovvero che l’ingegnere divide il suo tempo tra la fabbrica, le corse e la casa di campagna che ha comprato alla sua amante Lina Lardi e a suo figlio Piero.
Sullo sfondo ci sono due necessità impellenti: trovare un partner industriale che sostenga le ambizioni sportive della Ferrari e confermarne il mito di auto veloce e affidabile, vincendo la massacrante Mille Miglia con la squadra di piloti, guidata dall’esperto Taruffi e arricchita dal giovane ambizioso spagnolo De Portago, che viene dall’aristocrazia europea ed ha una giovane e bellissima amante, Linda Christian, che aveva sposato nel 1949 il divo Tyrone Power.
Pubblico e privato si rispecchiano in un copione scritto oltre venti anni fa dal modesto scozzese Troy Kennedy Martin (Un colpo all’italiana, 1969), nel frattempo deceduto nel 2009.
Probabilmente la sceneggiatura è stata successivamente rivista da Mann e da altri che non appaiono, ma il risultato è quello di una storia così poco interessante, così ordinaria, che non si comprende davvero cosa abbia spinto il regista di Heat e The Insider a raccontarla.
Il cinema di Mann è da sempre caratterizzato da antieroi ossessionati dal proprio lavoro, dalla perfezione di quella che vivono come una missione a cui sacrificare ogni cosa, fino a mettere in crisi i rapporti personali e familiari. Nei suoi film il senso incombente del destino e il tempo che passa troppo veloce pesano sui personaggi come nella grande tradizione del noir. Lo scontro con villain altrettanto ossessivi e perfezionisti è un elemento chiave che evita rappresentazioni manichee, anche in contesti di genere: tutti elementi che latitano in questo Ferrari.
Il Drake di Driver è così impalpabile e impenetrabile da non comunicare nulla, il suo alter ego Orsi, a capo della Maserati, è praticamente inesistente, mentre lo scontro principale è… con la moglie.
Non si ritrova nulla della formidabile messa in scena cartesiana di Mann, della sua cura maniacale sulle linee di frattura dell’immagine e sulle traiettorie degli sguardi, della grande sperimentazione digitale che ha caratterizzato il suo cinema da Ali in poi, costruendo da zero una grammatica visiva nuova e originale per strumenti di ripresa rivoluzionari, che non potevano essere usati semplicemente come una copia della pellicola.
Il film, illuminato dal giovane Erik Messerschmidt, collaboratore di David Fincher per Mank e per la serie Mindhunter, non sembra in alcun modo capace di restituire il colore e lo spirito dell’Italia degli anni ’50, divisa tra una cultura contadina ancora forte e una vena imprenditoriale formidabile che in quell’improbabile crogiolo emiliano lavorava su lamiere, motori, carburatori fino a farne un’ossessione condivisa.
Anche la parte sportiva è diminutiva e poco ispirata, se si eccettua la partenza notturna della Mille Miglia.
Modesto anche il montaggio di Pietro Scalia che si limita ad assecondare il continuo confronto pubblico/privato e un’idea di velocità nelle scene sportive, con il solito disgustoso e ripetuto cliché del gioco di freno, frizione, cambio e acceleratore che in un film di questo livello appare immediatamente in tutta la sua miseria e lascia subito l’amaro in bocca.
Quanto agli attori coinvolti, Adam Driver è un Enzo sbagliato, nel fisico troppo alto e dinoccolato e in questo esperanto inglese in cui il film è girato ed ha un senso solo commerciale. Una lingua che peraltro si mescola male con gli accenti latini della Cruz, che interpreta la moglie, con l’americano della Woodley nella parte dell’amante e con gli intercalari italiani “signore”, “signora”, “commendatore” che punteggiano le battute degli altri.
In un film che incredibilmente sembra una brutta fiction televisiva, nessuno ne esce molto bene, tranne forse la Cruz che ha il ruolo melodrammatico della mater dolorosa e della moglie tradita, che le calzano a pennello. Particolarmente efficace la scena in cui si reca in cimitero, alla tomba del figlio scomparso prematuramente e nella quale Mann la lascia come da sola in un lunghissimo primo piano capace di testimoniare senza interruzioni la tempesta emotiva che le attraversa il cuore. E’ tuttavia un momento, uno solo, che sembra evocare il Mann di sempre, quell’umanista capace di rappresentare la lotta titanica di ciascuno con il proprio destino.
Ci si chiede infine a quale pubblico questo Ferrari sia destinato: il coté melò e familiare è al livello di un rotocalco popolare, quello sportivo non aggiunge nulla e non è neppure particolarmente spettacolare, il tutto sembra girato da una Intelligenza Artificiale, a cui non sia stato neanche ordinato di copiare lo stile di Mann.
Film anonimo e anodino, non penso che possa interessare neppure agli appassionati di motori, che la storia la conoscono a menadito e che difficilmente riusciranno a rimanere colpiti dalla rappresentazione dei piloti, piuttosto superficiale e stereotipata.
Difficile riconoscere uno dei maestri del cinema americano del secondo Novecento nelle immagini inutili di questo Ferrari.
Non sarebbe piaciuto al Drake e certamente non è piaciuto a noi.

