El Conde

El Conde ***

Il ritorno in Cile per Larrain dopo la trasferta europea di Spencer, coincide con un nuovo film sul fantasma di Pinochet, questa volta al centro di una feroce satira, piena di elementi fantastici, in cui si immagina il dittatore come un vampiro nato in Francia nel XVIII secolo e che dopo 250 anni è deciso a lasciare questo mondo, deluso dal modo in cui è stato trattato dalle autorità e dalla giustizia del Paese latinoamericano che si era infine scelto come territorio fertile per la sua conquista del potere.

Il film si apre in una landa desertica in cui sorgono baracche diroccate: sembra uno di quei campi utilizzati durante la dittatura per rinchiudere i dissidenti. Qui vive Pinochet con la moglie Lucia e il fidato maggiordomo Fyodor, un tempo spietato assassino e torturatore durante il regime.

Una voce femminile, in inglese, ci racconta la sua storia di trovatello nato in Francia nel ‘700 come Claude Pinoche, passato dall’esercito di Luigi XVI alla diserzione, al tempo della Rivoluzione. Dopo essere così scampato alla forca, portandosi dietro come souvenir la testa mozzata di Maria Antonietta, il vampiro attraversa il tempo e lo spazio, incrociando le rivolte ad Haiti, in Russia e in Algeria, fino a stabilirsi in un piccolo paese dell’America del Sud, con il ruolo di generale e l’obiettivo di diventare “un milionario invincibile”.

Dopo essere salito al potere tradendo Allende, Pinochet governa per quasi un ventennio. Una volta destituito viene accusato di una lunga serie di crimini fiscali e amministrativi, a cui si sottrae inscenando la propria morte nel 2006, trasferendosi in quello spazio desolato dove lo ritroviamo ora. Il conte è deciso a morire, non riesce più a sopportare che il mondo lo ricordi come un ladro e ha smesso di bere sangue e di mangiare cuori umani, aspettando solo un cupio dissolvi.

I cinque figli, avidi e nullafacenti, bramano invece la sua eredità e ingaggiano Carmen, una giovane contabile di origini francesi, per mettere ordine tra i documenti conservati nel sottosuolo da Fyodor, un vampiro anche lui: recuperando titoli, conti esteri, beni immobili e società, occultati in una infinita serie di scatole cinesi e di intestatari di comodo, i figli vogliono continuare a godere dei privilegi di una volta.

Il conte tuttavia sembra trovare nuovi stimoli e voglia di vivere nella giovane donna, in realtà una suora esorcista, che è convinta sia solo posseduto dal demonio.

“Augusto Pinochet non si è mai dovuto confrontare realmente con la giustizia: è morto in libertà, molto ricco, e tale impunità l’ha reso quasi eterno. Questa eternità è restituita al meglio dalla figura del vampiro”.

Il film di Larrain, scritto ancora una volta con il commediografo Guillermo Calderon (Il Club, Neruda, Ema) e girato in un bianco e nero da film dell’orrore da Edward Lachman, è il più diretto e il più feroce dei suoi lavori sulla dittatura militare.

Chiuso in una dimensione esplicitamente di genere e immerso in un’ironia crudele che non risparmia nessuno, El Conde è un film non sempre equilibrato, che accumula suggestioni, accuse, invettive, non solo contro il dittatore, ma allargando il campo alla sua famiglia di approfittatori e parassiti, al sadismo dei suoi collaboratori, alla perfidia dei suoi ispiratori politici, alla bramosia della stessa Chiesa Cattolica.

Il film è denso, molto parlato, sulfureo, livido diremmo, e non sempre lucido nel dipingere un quadro fosco in cui non si salva nessuno: Larrain sembra tornato al cinema anti-empatico dei suoi esordi, non lasciando molte possibilità di identificazione.

Se infatti all’inizio la suora Carmen appare come un riferimento privilegiato, estraneo ai peccati della famiglia Pinochet e lontano anche dal punto di vista generazionale dal covo di vipere in cui viene inviata, in realtà anche lei ha la sua agenda, i suoi obiettivi e la sua ambizione malsana.

Si rimane spesso sperduti in questa commedia nerissima, in cui si ride amaro e in cui non tutti i riferimenti sono immediatamente intellegibili da un pubblico internazionale.

Dopo un inizio compatto, molto efficace secondo coordinate horror classiche e un secondo atto che apparecchia diverse linee narrative, assecondando i desideri di ciascuno, il finale sembra incapace della stessa implacabile determinazione nel tirare le fila dell’intreccio. Larrain e Calderon si perdono un po’, introducono un colpo di scena ovviamente molto gustoso che amplia la dimensione del racconto, pur rispettando pienamente la biografia del dittatore, eppure l’impressione è che nel caos disordinato del film, Larrain finisca un po’ per perdersi, senza trovare davvero la chiave giusta.

A differenza della sua trilogia originaria sul Cile negli anni di Pinochet, che sembrava voler fare i conti soprattutto con una dimensione storica e identitaria, questo nuovo incontro con il dittatore sembra rivolgersi a spettatori nuovi, collegando il passato al presente e disegnando una mappa più aggiornata di quel crogiolo culturale e politico nel quale Pinochet potè affermarsi e mantenere il potere per diciassette anni. Da Ema in poi Larrain sembra essere entrato nella contemporaneità del suo Paese, costretto a prendere posizione in modo diretto sui movimenti tumultuosi che hanno stravolto al politica cilena nell’ultimo lustro e che non si sono ancora stabilizzati.

Sarebbe poi curioso leggere il finale a colori, con i due vampiri sopravvissuti e ringiovaniti nei panni di una madre bionda e di un bambino, davanti ad una scuola di Santiago, come un riferimento personale tanto malevolo quanto coerente con la storia della  famiglia stessa di Larrain, da oltre un secolo immersa nella politica cilena più conservatrice e non estranea al potere neppure negli anni di Pinochet.

Il dubbio rimane, ma forse non basta a arricchire di senso un film più arrabbiato che lucido, in cui Larrain sembra aver perso la giusta distanza ed in cui la dimensione metaforica del racconto è sin troppo esplicita, lasciando al tono satirico e farsesco il compito di mettere tutto nella prospettiva giusta.

“Senza la satira si andrebbe verso una sorta di empatia, che non sarebbe accettabile” rivela Larrain: l’ansia di dire tutto e di dire troppo, senza ambiguità, ci consegna un film troppo schiacciato sul suo tono accusatorio, che vuole colpire duro, ma sembra talvolta colpire troppo in basso e talvolta a vuoto.

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