Sto pensando di finirla qui

Sto pensando di finirla qui ***

Il terzo film di Charlie Kaufman, sceneggiatore geniale e oscuro, rivelatosi con Essere John Malkovich, Confessioni di una mente pericolosa, Il ladro di orchidee e Se mi lasci ti cancello, è l’adattamento di un romanzo recente di Iain Reid, che nelle sue mani diventa un nuovo viaggio labirintico nella mente del protagonista, il timido Jake.

Fidanzato con Lucy, una studentessa di fisica, da appena sei settimane, Jake decide di farle conoscere i suoi genitori, che vivono in una fattoria fuori città.

I due si mettono in viaggio in una mattina, che promette tempesta: attraverso le loro parole e i pensieri di Lucy, che ha già deciso di lasciarlo, Kaufman ci accompagna pian piano all’interno della vita di Jake, attraverso una lunga serie di riferimenti culturali, musicali, poetici, pittorici che dal musical Oklahoma arrivano sino alle parole di Wordsworth ed Eva H.D. e ai quadri di Blakelock.

E’ un lungo dialogo che si nutre di citazioni, di spigolosità, di poesia, interrotto solo dalle riflessioni nella mente di Lucy, che misteriosamente Jake sembra poter ascoltare.

Quando finalmente arrivano alla fattoria, Jake le mostra gli animali e le racconta di unincidente occorso ai maiali qualche tempo prima. Una volta entrati in casa, Lucy – ma forse si chiama Lucia, Louise o Ames – viene accolta dai genitori strampalati di Jake.

In quella casa il tempo sembra muoversi in modo non lineare, madre e padre sembrano vecchissimi e poi giovani di nuovo, mentre Lucy a fatica riesce a comprendere e ricordare davvero quello che è accaduto.

“Tutte le famiglie felici sono uguali, tutte le famiglie infelici lo sono a modo loro” ripete Lucy citando Tolstoj, ma anche su questo Jake non è d’accordo. Anche la felicità si può declinare in molti modi, persino in una modesta fattoria di provincia.

Quando finalmente Jake riprende la strada del ritorno, in piena tempesta di neve, tra di loro ricomincia un dialogo fitto e pieno di incomprensioni, che prende spunto da Una moglie di Cassavetes, amato dal protagonista e stroncato da Pauline Kael, le cui parole Lucy sembra fare proprie, passa poi a David Foster Wallace, include La società dello spettacolo di Debord e si chiude con l’interpretazione controversa della vecchia canzone Baby, It’s Cold Outside.

Dopo una sosta surreale ad una gelateria immersa nella neve, l’ultimo, quarto atto si compie nel vecchio liceo di Jake, dove lavora un inserviente che abbiamo visto nel corso di tutto il film, sempre isolato dagli altri, osservatore silenzioso di un mondo, che neppure si accorge della sua presenza.

Sto pensando di finirla qui sembra cominciare come una di quelle classiche commedie romantiche, in cui il viaggio per conoscere i parenti, diventa occasione di incomprensioni ed equivoci, che portano quasi alla rottura e che poi trovano nel finale consolatorio, l’inevitabile e zuccherosa ricomposizione.

Kaufman si fa beffe di queste aspettative, inserendole nello spezzone di un implausibile film romantico diretto da Zemeckis, che l’inserviente guarda in un momento di pausa del suo lavoro.

In realtà il suo lavoro gioca a ribaltare le attese, stressando i generi, per creare aspettative continuamente disattese.

La stessa struttura quadripartita, rompe la perfezione aristotelica lasciando proprio nella coda gli elementi più surreali, inattesi, che dal musical all’animazione, dal plagio del finale retorico di A beautiful mind, fino alla ripresa di Lonely Room di Oklahoma, può disorientare, proprio quando ci si attenderebbe un chiarimento.

E’ tuttavia piuttosto evidente che Sto pensando di finirla qui è soprattutto una riflessione sul ruolo della cultura di massa, su come tutto ciò che vediamo, leggiamo, ascoltiamo finisca per sedimentarsi nella nostra memoria e costruisca la nostra identità.

Il dialogo immaginario con Lucy, Lucia, Louise, Ames è solo un modo per fare i conti con se stesso, con le cose che abbiamo amato, che ci hanno influenzato. La funzione della co-protagonista è evidentemente meta-narrativa. Serve a Kaufman per creare un conflitto, altrimenti impossibile da visualizzare.

Jake l’ha costruita letteralmente attraverso i libri, i film, gli incontri passati che ne hanno definito la personalità e il carattere.

Non è un caso che lei ad un certo punto finisca nella camera di Jake da bambino, dove ritrova i libri, i film, i saggi che sono stati e saranno oggetto delle loro riflessioni dialettiche. E’ lì, in quell’angolo remoto della memoria, che forse va trovata la chiave ad un film che è un’illusione continua, ma che non vuole cercare per forza l’inganno nei confronti dello spettatore, fornendogli pian piano gli indizi, per comprendere la sua struttura ambigua, ellittica.

Kaufman rimane quello che entrava nella mente di John Malkovich: anche qui le sue ossessioni sul controllo, sui meccanismi della conoscenza, sugli inganni della memoria e sullo scorrere del tempo, sono centrali. La sua natura introspettiva ne esce ulteriormente rafforzata, perchè è nella scrittura, nella sua mediazione, che si costruisce la nostra idea del mondo.

Sto pensando di finirla qui è un altro tour de force, che chiede ai suoi spettatori di interrogarsi, di assecondarlo e di non rimanere passivi.

Può essere frustrante, naturalmente, perchè i riferimenti sono infiniti, le suggestioni diverse e non tutte intellegibili e Kaufman non fa nulla per renderle più chiare.

Il film può risultare fastidioso, saccente, eppure mantiene sempre una tensione oscura da film dell’orrore.

Si leggono in filigrana echi di quel dibattito culturale molto americano, che punta a fare i conti con il maschilismo patriarcale di cui era spesso intrisa la cultura di massa, e che qui diventano elementi che riaffiorano nella mente del protagonista e che dialogano con la sua formazione, con i ricordi del suo passato.

Straordinaria la coppia di attori, Jessie Buckley e Jesse Plemons, che già nel nome condividono lo stesso destino identitario a cui li costringe il film.

La fotografia in formato stretto è del polacco Łukasz Żal (Cold War), che asseconda il desiderio di Kaufman di seguire solo i suoi due protagonisti e di isolarli dallo spazio attorno a loro, che non sembra mai occultare la sua natura di set.

Solo che questa volta i personaggi di Sto pensando di finirla qui non sono puntini che viaggiano orizzontalmente sulla linea del tempo, ma sono immobili ed è il tempo ad attraversarli improvvisamente come fa il vento, anche in modo impetuoso.

Alla fine di tutto c’è una vecchiaia imbellettata e fatua e poi la morte, capace di mettere fine ad un’esistenza di illusioni.

D’altronde è proprio Lucy, che afferma all’inizio: “gli altri animali vivono nel presente, gli esseri umani non possono farlo, così hanno inventato la speranza“.

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