Fury. Recensione in anteprima!

Fury poster

Fury **1/2

Fury è il quinto film diretto dallo sceneggiatore David Ayer, distintosi grazie al lavoro per U-571, Fast and Furious, Training Day e quindi passato alla regia, raccontando la vita di strada in Harsh Times e nel noir metropolitano con La notte non aspetta, scritto da Ellroy.

Il successo di End of watch, con Gyllenhaal e Pena è stato bilanciato dal tonfo del pur pregevole Sabotage con Arnold Schwartzenegger, uscito quest’estate.

Fury è il suo progetto più ambizioso, ma appare anche come la summa della sua poetica fatta di camraderie maschile, eroismo suicida e fedeltà assoluta ai valori della divisa.

Il suo film può sembrare conservatore, apparentemente fedele al motto Dio, Patria e Famiglia, ben difeso dalla forza delle armi: eppure Ayer, che costruisce un film di impianto molto tradizionale, ne rivolta gli esiti, grazie ad una messa in scena di grande realismo, che amplifica le ambiguità e pone domande che non trovano risposte univoche.

Siamo alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Nell’aprile 1945 gli americani stanno spingendo l’esercito nazista alla resa, non solo con l’aviazione, ma anche con le incursioni via terra, a bordo di carri armati, che scontano però un’inferiorità evidente, rispetto alla superiore tecnologia tedesca.

Guidati dal sergente Don Collier, detto “Wardaddy”, altri 4 soldati occupano il tank “Fury”: Boyd Swan soprannominato “Bible”, Trini Garcia, “Gordo”, Grady Travis, “Coon-Ass” e l’ultimo arrivato al fronte, il giovanissimo e inesperto Norman Ellison, arruolato come tipografo e catapultato in prima linea senza alcuna esperienza.

Quest’ultimo prende il posto di un soldato deceduto in battaglia: il gruppo originario aveva combattuto in Africa e poi era sbarcato in Europa in Normandia.

Tra di loro si è formato un legame quasi familiare, dovuto anche alla necessità di condividere costantemente uno spazio angusto come quello di un carro armato.

Il film segue lo Sherman in una missione dietro le linee nemiche, alla testa di un convoglio di cingolati, fino ad un piccolo paesino tedesco, dove “Wardaddy” e Norman finiranno per mettere da parte le diffidenze reciproche, in un raro momento di intimità.

Norman è riluttante ad uccidere. La sua incertezza costerà delle vite umane e la sua educazione alla violenza disumana della guerra sarà doppiamente traumatica.

Ma “Wardaddy” lo prende sotto la sua ala ed il giovane saprà mostrare il suo coraggio, conquistando alla fine gli altri compagni.

Il film è semplice ed esemplare nella sua trama. Ayer non ha paura di esagerare con la retorica muscolare e con il patriottismo, costruendo un film che parte da una storia d’altri tempi, aggiornandola alla sua sensibilità cruda e realista.

Politicamente scorretto e lontanissimo da qualsiasi tesi anti-militarista, Fury mostra anche grandi scene di battaglia come non si vedevano forse dai tempi di Salvate il Soldato Ryan.

I nazisti senza volto sono tutti criminali e meritevoli di essere giustiziati, compresi i ragazzini della gioventù hitleriana.

La logica del film è quella dei suoi protagonisti. Innanzitutto quella di “Wardaddy”, sergente spietato, che non intende fare prigionieri tra i nazisti.

Interpretato con la consueta forza drammatica da un Brad Pitt, capace di sempre meno enfasi, “Wardaddy” sembra il fratello di sangue del Colonnello Kilgore di Apocalypse Now: un uomo capace di attraversare l’orrore della guerra senza mai un momento di paura o di incertezza, con apparente imperturbabilità .

Ayer, che ha prestato servizio su un sottomarino e conosce la vita militare e la sua claustrofobia, sembra revocare d’un tratto 70 anni di film sulla Seconda Guerra Mondiale, in favore di un realismo mai così esplicito.

E solo nel finale finisce forse per far prevalere l’umanesimo della giovane recluta Norman, che in qualche modo ribalta il punto di vista da antico testamento di “Wardaddy”.

Ma è davvero così? Il finale è una scelta politica o solo una deviazione del destino?

E la frase che i cinque si ripetono come un mantra, “the best job I ever had“, è una sorta di amara constatazione o il tentativo di convincersi della necessità di trasformarsi in macchine di morte?

Difficile dirlo.

E cos’è davvero questo Fury? Una premonizione della nuova ondata conservatrice, che sta travolgendo l’America negli ultimi anni della presidenza Obama? La rivendicazione del ruolo degli Stati Uniti in uno scenario geopolitico, dilaniato da conflitti sempre più sanguinosi e incerti?

O più semplicemente un film di guerra di straordinaria potenza ed orrore, che unisce il realismo claustrofobico della messa in scena, allo spirito eroico dei suoi protagonisti?

Il dubbio rimane, resta il talento viscerale di Ayer nella messa in scena delle battaglie, la bravura dei cinque interpreti, la fotografia materica del russo Roman Vasyanov, la colonna sonora di Steven Price, che evita inutili sottolineature drammatiche ed il montaggio essenziale di Doddy Dorn.

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