Aggiornamento 18.1.2010: qui la recensione definitiva
Avatar ***1/2
Nei prossimi giorni, mettendo un po’ di distanza e lasciando sedimentare le immagini, pubblicheremo la nostra recensione di Avatar.
Ora, a pochi minuti dalla fine della proiezione, possiamo condividere con voi solo le nostre prime impressioni.
Quello che affascina e rende unica l’esperienza Avatar è la riconquista del senso di meraviglia, che Cameron è riuscito a portare sullo schermo.
Con il secondo Terminator, diciassette anni fa, aveva compiuto il primo decisivo passo verso l’integrazione degli effetti speciali computerizzati nel tessuto narrativo. Dopo di lui sono venuti Jurassic Park, Matrix e tanti, troppi epigoni minori.
Con Titanic, Cameron aveva sfidato ogni regola produttiva, costruendo un’opera piena di romanticismo e senso del destino, ma aveva innanzitutto reso epico l’affondamento, in tutta la sua devastante potenza scenica. La notte, il blu livido dello scafo, l’inabissarsi progressivo e poi le scialuppe disperse nella notte, i corpi resi cianotici dal acqua ghiacciata: una sinfonia cinematografica destinata forse a passare in secondo piano, per la forza trascinante della storia d’amore tra Di Caprio e la Winslett, allora solo due giovani attori alle prime armi.
Ora, a 12 anni di distanza dalla sua ultima regia, Cameron si conferma straordinario inventore di mondi. Il pianeta Pandora su cui atterranno gli astronauti colonizzatori – che si servono di avatar che simulano le fattezze aliene, per cercare di stabilire un contatto con il popolo indigeno – è entusiasmante, coloratissimo, vitale e primitivo.
La ricostruzione di un habitat naturale incontaminato è geniale: tutta la prima parte del film, nel quale noi veniamo in contatto con il mondo dei Na’vi, attraverso gli occhi di Jack Sully – marine catapultato sul pianeta, a causa della morte accidentale del fratello gemello, scienziato impegnato nella missione Pandora – è un continuo straordinario fuoco artificiale di invenzioni visive, di creature viventi e di poetico stupore.
Vent’anni di film americani schiavi degli effetti speciali digitali avevano drasticamente appannato il senso fantastico della meraviglia, della pura gioia di scoprire mondi e immagini mai viste.
La nostra è un’epoca in cui tutte le immagini sono possibili, tutte le realtà, vere o ipotetiche, sono alla portata di ogni grande produzione; si può simulare un disastro globale, capace di annientare l’intero pianeta (2012 docet) e nessuno più sembra chiedersi: ma come hanno fatto, come c’è riuscito?
Sono lontani i tempi in cui si guardava l’ultima memorabile ripresa di Professione: reporter cercando di capire come Antonioni era stato capace di piegare le sbarre di una finestra, con la forza poetica del suo lentissimo carrello.
In un’epoca in cui ogni ripresa è realizzabile e l’artificio tecnico è superato dalle possibilità pressoche infinite della manipolazione delle immagini imposte dai software, la forza di Avatar mi sembra risiedere essenzialmente nella sua capacità di spingersi più in là, di farci aprire gli occhi su qualcosa di inedito.
La suprema orchestrazione della fotografia di Mauro Fiore, che utilizza tutto lo spettro delle tonalità comprese tra il blu, il verde ed il viola, dona un significato nuovo ai green screen ed alla performance capture.
La tecnologia sviluppata da Cameron è sempre al servizio di un racconto archetipico, magari semplice, non particolarmente innovativo, ma che affonda nel mito stesso del cinema: dal nuovo mondo di Malick, al piccolo grande uomo di Penn, sino a Balla coi lupi.
Le grandi narrazioni epiche sono già state esplorate: spesso si tratta solo di raccontare con parole nuove, una storia che conosciamo da sempre.
Regista del capitale, se mai ce n’è stato uno, Cameron rimane politicamente un radicale: questa volta affronta di petto le idiozie guerrafondaie dell’America della lotta al terrore, racconta ancora una volta il mito della scoperta e lo lega alla sfida ecologica, per una convivenza sostenibile.
La storia di Jack è in fondo quella della conquista di un’identità, anche attraverso la rinuncia a sè ed al proprio mondo.
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