Cannes 2024. The Substance

The Substance **1/2

All’inizio ci sono solo le misure di una stella sulla Walk of Fame, quella dell’attrice Elisabeth Sparkle: ma il tempo passa, i premi prendono polvere e il ketchup di un panino imbratta anche il nome sul marciapiede.

Ed Elisabeth, a cinquant’anni, deve accontentarsi di un programma di work out in una tv privata, “Sparkle Your Life”. L’indice di gradimento è ancora alto, ma il laido direttore di rete Harvey è pronto a sostituirla con una ragazza più giovane e bella, che possa continuare a sorridere al pubblico e agli ascolti.

Dopo un banale incidente d’auto, in ospedale un giovanissimo paramedico lascia a Elisabeth una chiavetta, con un numero di telefono e un nome “The substance”: “mi ha cambiato la vita”, l’avverte.

La segretezza è massima, le condizioni dell’acquisto non troppo diverse da quelle di uno spaccio, ma la sostanza in questione promette di creare una versione più giovane di sè con una sorta di partenogenesi, con tre sole regole: una sola possibilità di attivazione, la quotidiana stabilizzazione delle due creature attraverso il liquido spinale estratto dal midollo del donante, quindi lo scambio delle identità rigorosamente ogni sette giorni, mentre l’altro corpo si nutre di una speciale flebo.

Nel grande bagno di una casa in cui vive da sola, Elisabeth ci prova e ci riesce, creando Sue, incantevole venticinquenne con il suo talento e un corpo di nuovo perfetto. Sue prenderà il suo posto in tv, sarà amata, coccolata, ma dovrà sparire ogni sette giorni per restituire l’identità a Elisabeth.

Ma la rivalità, la sete di vita e di successo, porterà la più giovane a forzare il rigido protocollo con effetti imprevedibili e raccapriccianti, fino al redde rationem finale la notte di capodanno in tv.

Il secondo film di Coralie Fargeat, un body horror che nell’ultima parte non teme di inondare lo schermo con il gore più esagerato ed estremo che probabilmente si sia mai visto al Festival di Cannes, è una riflessione a misura di social del Mito della giovinezza e della celebrità.

Una sorta di La morte ti fa bella aggiornato ai nostri tempi, con un’estetica che si nutre dell’arida perfezione colorata di una foto di Instagram, della curiosità di un unboxing di YouTube e dell’ammiccante sensualità di un balletto di Tiktok: tutto apparentemente bel girato, ma i riferimenti sono quelli, più che i lavori di Cronenberg.

Il film di Fargeat guarda come avete capito ai conflitti eterni di un nuovo Eva contro Eva, vecchio come il mondo.

Self-hate lo chiamano negli Stati Uniti, ovvero la disistima, l’odio verso se stessi: è forse questo che spinge Elisabeth a creare Sue, nel punto più basso della sua carriera di star, finendo per cederle tutti i suoi spazi, il suo programma, la sua casa, l’affetto degli spettatori, persino il cartellone pubblicitario che campeggia di fronte al suo attico.

E la giovane e ambiziosa ragazza non ci pensa un secondo a prendersi tutto, anche quella vita a metà che spetterebbe ancora all’altra, ridotta prima ad una larva nascosta nel nascondiglio creato dietro una parete di casa, quindi costretta a subire gli effetti collaterali degli abusi di Sue. C’è sempre un ritratto di Dorian Grey che invecchia per noi, ma questa volta pretende di vivere e camminare per almeno una settimana ogni due.

Inutile dire che la voce misteriosa degli spacciatori della sostanza insiste nel ricordare alle due donne che sono un’unica persona che condivide due corpi e che devono ragionare in quei termini: Elisabeth e Sue finiranno per odiarsi nel modo più feroce e violento possibile, alla faccia della solidarietà di genere, in un escalation di dispetti, violenze, abusi e altre atrocità.

In fondo questo The Substance è un film sul tempo, quello che passa e quello che si consuma.

E’ il tempo che manca a Sue: ne desidera sempre di più, senza accorgersi che bruciando il suo, consuma più velocemente anche quello di Elisabeth, sino ad esaurirlo del tutto. La soluzione? E’ un altro abuso del protocollo, un altro parto non consentito, che permette invece a Farget un finale letteralmente esplosivo, in cui l’horror si fa splatter estremo, kitch sanguinario in zona Troma.

La nostra ossessione di apparire, di esserci comunque e farci vedere belli e giovani come non siamo ci porterà alla rovina, alla creazione di un alter ego virtuale insostenibile e auto-distruttivo: forse è questa la lezione di Fargeat?

La riflessione femminista (?) è invece vecchia come il mondo: le luci della ribalta spettano alle giovani e belle ragazze che devono continuare a sorridere, mentre alle altre è destinato un fascio di rose con il crudele biglietto “Grazie per tutti questi anni, sei stata fantastica”.

In realtà in tempo di body shaming e di #metoo la brutalità di certi modelli e comportamenti dovrebbe essere il ricordo di un passato ancora vicino, almeno nelle parole: qui invece il viscido Harvey rappresenta il campionario da manuale del produttore old style, superficiale, insensibile e offensivo. Un villain da manuale, ripreso in close up che devastano e deformano il suo viso arrogante.

Fargeat ruba a tutti, usa un’estetica di plastica e gira un film più furbo che riuscito, un horror tirato a lucido per un bel reel. Fargeat fa cinema di genere senza vergogna di mandare tutto all’aria con un finale di pura idiozia degenerata e pur apparendo simili, è all’esatto opposto dello spettro di Ducournau, che invece ci tiene terribilmente alle sue ambizioni arty.

Ma è questo il destino del nostro cinema? Ad ascoltare l’entusiasmo da stadio alla proiezione stampa di Cannes, c’è da preoccuparsi.

Notevoli invece le due attrici protagoniste: innanzitutto Demi Moore, diva degli anni ’90 effettivamente dimenticata dal cinema maggiore, che si offre con generosità totale, prima ostentatamente nuda e quindi costretta a subire gli insulti dell’età e del trucco prostetico, provocati dagli abusi del suo alter ego; quindi Margaret Qualley, corpo statuario, ambizione massima, ferocia nascosta dietro un sorriso innocente. Il futuro è suo.

 

 

 

 

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