Una spiegazione per tutto

Una spiegazione per tutto ***1/2

“Cosa non si può fare in questo Paese?”

C’è una scena all’inizio di questo folgorante apologo firmato dall’ungherese Gàbor Reisz che sembra marginale, ma forse racchiude il senso di un film che nella complessità e nella pluralità delle voci e degli sguardi trova la sua verità: un professore di storia, Jakab, intervista uno dei sopravvissuti alla rivolta del 1956, ma i ricordi forse un po’ artefatti dell’uomo sembrano scontrarsi con la versione ufficiale tramandata nei libri. Qualcosa non quadra, le date non tornano, i due personaggi si parlano ma non si comprendono, fino a dover interrompere bruscamente la testimonianza.

Siamo nell’Ungheria di Orbán e il film racconta, come in un diario, un pugno di giorni d’estate che ruotano attorno all’esame di maturità di Abel Trem.

“Lunedì: Abel capisce di essere innamorato”: con questo primo messaggio che appare sullo schermo entriamo nella vita del protagonista. Segretamente innamorato della compagna Janka, cerca in lei il conforto per affrontare il temuto esame di storia.

Nei capitoli successivi conosceremo Gyorgy, il padre architetto di Abel, seguace del partito conservatore Fidesz, quindi Jakab, il suo professore e infine Erika, una giornalista di provincia che scrive sul quotidiano “Giorni ungheresi” vicino alle posizioni di Orbán.

Per Abel le cose si mettono male: all’esame fa scena muta, sui due argomenti che ha pescato tra quelli possibili. Ma quando si siede davanti alla commissione, porta sul bavero della giacca la coccarda tricolore, una volta utilizzata solo il 15 marzo per la commemorazione dell’indipendenza ungherese con i moti del 1848, ma poi diventata simbolo nazionalista dei seguaci del premier.

Il professor Jakab, dopo aver cercato di mettere Abel a suo agio per spingerlo a rispondere qualcosa agli argomenti dell’esame, gli chiede conto di quella coccarda.

Quell’accenno è sufficiente per trasformarsi in una scusa patetica, che Abel utilizza col padre per giustificare la bocciatura.

Come in una sorta di surreale telefono senza fili, Gyorgy racconta la storia al suo cardiologo, anche lui seguace di Orbán, quindi passa ad un tassista che espone la coccarda sullo specchietto e infine attraverso un cavedio e una finestra aperta, giunge alle orecchie di Erika, che fiuta la possibilità di un buon articolo e trasforma l’episodio in una faccenda di stato, che coinvolge il ministero, il preside della scuola e che finirà per travolgere tutti.

In un Paese diviso e polarizzato, in cui la paura è l’unico sentimento trasversale, le persone non riescono più a parlarsi: si urlano addosso frasi fatte e slogan polemici, incapaci di comprendere le ragioni altrui, certi che c’è una spiegazione per tutto, ma è sempre la propria versione.

In questo film però Gàbor Reisz rifiuta di distinguere buoni e cattivi in modo manicheo, soprattutto perché i personaggi di questa storia sono persone ordinarie, comuni, travolte dalle parole d’ordine del Potere.

Anche il professore sembra incapace di ascoltare davvero: non solo Abel o Gyorgy, ma anche la moglie, con cui vive una convivenza sempre più estraniata.

Allo stesso modo Gyorgy nella sua professione deve scontrarsi con committenti, talmente intossicati dal regime, che vorrebbero costruire copie delle residenze dei ministri.

Neppure la giovane giornalista sembra assumere un ruolo totalmente negativo: è solo una piccola pedina in un gioco più grande di lei. Lo comprendiamo benissimo alla fine, quando viene assunta nello staff del ministro, ma dopo i complimenti le fanno subito notare che – anche se non esiste un dress code – le scarpe da ginnastica non sono ammissibili in quel contesto.

“Ci sono solo due categorie», dice Gyorgy. «I patrioti e i traditori»«Dimentica la terza: le teste di cazzo», gli risponde Jakab in quella che è una delle scene più forti di un film che vive di pedinamenti, di ellissi, di incontri mancati e risposte non date e che si accede improvvisamente nei momenti in cui i personaggi cercano di parlarsi davvero, senza essere in grado di farlo.

Lo sguardo di Reisz sembra come costretto: il film si apre con immagini di home movies dei ragazzi in gita, che occupano solo un piccolo quadratino sullo schermo. Un quadratino che si fa sempre più grande sino a riempire il nero che lo circonda, ma il film è girato in formato stretto 4:3 e i personaggi sono costantemente oggetto di recadrage, costretti a occupare soglie, stanze, porte, come soffocati dall’ambiente che li circonda.

Paradossale l’immagine del nuovo esame, che Abel deve affrontare fendendo la folla di telecamere, giornalisti e curiosi che affollano la piccola aula.

Ma se Reisz non sembra riporre grandi speranze negli adulti, lascia al suo protagonista almeno la possibilità di una fuga, la spensieratezza felice di una gioventù ancora non corrotta dalle delusioni e dalla paura: per Abel possiamo sempre immaginare un 26 agosto in una piscina altrui, con gli amici e poi di corsa verso un lago che assomiglia al mare, in cui l’orizzonte non ha confini.

La voglia di libertà e di immaginare un futuro diverso da quello plumbeo e rancoroso in cui i personaggi di questa sembrano muoversi è il più politico degli statement, forse l’unico possibile.

Il Muro è caduto oltre trent’anni fa, ma tra gli ideali traditi del ’56, i rimpianti per il comunismo e un capitalismo abbracciato troppo repentinamente, nella sua versione più rapace, quello che resta è solo nuova confusione, un patriottismo malinteso e la sensazione che ogni certezza si sia sbriciolata. Imperdibile.

Miglior film di Orizzonti a Venezia 2023.

Dal 1 maggio in sala con Arthouse di I Wonder.

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