Un toro nero ripreso di notte, in primo piano, poche ore prima di essere giustiziato nell’arena. Poi un altro primo piano frontale, quello del volto sudato, febbrile, ancora teso del matador Andrés Roca Rey, di origini peruviane, neppure trentenne, l’ultima delle icone di una sfida antica e brutale, per molti semplicemente insostenibile e inaccettabile.
Albert Serra costruisce “il suo primo e ultimo documentario” senza tentare di comprendere o di spiegare, senza mai interrogare il suo protagonista, ma osservando ossessivamente i suoi rituali: la meticolosa preparazione e la vestizione in albergo, i costumi barocchi, le ferite, la ripetitività dei gesti scaramantici e religiosi; gli spostamenti in pulmino con gli altri toreri ripresi a camera fissa mentre esaltano le gesta di Andrés fino all’idolatria; infine quattordici lunghi pomeriggi in cui il toro e il suo matador si affrontano nell’arena, secondo una danza di morte che prevede un finale già scritto, ma a cui il toro spesso riesce a ribellarsi.
Forse l’animale è inconsapevole del suo destino già scritto, ma di certo il matador sfida la sorte consapevolmente, per una gloria che si nutre di invincibilità.
Nella sua ossessiva ripetizione dell’identico, Pomeriggi di solitudine sembra quasi assuefarci alla brutalità della violenza. Ma a Serra non interessa un discorso politico sulla tauromachia, né mostrare il contesto antropologico e sociale all’interno del quale questa sfida antica ha ancora il suo fascino. Pomeriggi di solitudine non è neppure un’agiografia del suo protagonista che infatti, dopo essersi rivisto sullo schermo, pare che abbia minacciato di far causa all’autore.
In realtà il film è un altro tassello che testimonia l’ossessione del regista per i protagonisti di mondi al crepuscolo, in via di dissoluzione: lo era la corte del Re sole in La Mort de Louis XIV, così come i libertini nell’Ottocento di Liberté o il funzionario de Roller nella Polinesia di Pacifiction.
Lo è anche Andrés Roca Rey, nonostante quest’aura eroica, superomistica, continuamente alimentata dal sacrificio a cui prende parte e da cui esce vincitore. Il torero è un performer assoluto, consapevole di sé, costretto a sfidare continuamente l’animale sulla scena.
Serra ci restituisce un personaggio misterioso, enigmatico, impenetrabile, chiuso nei suoi riti, nei suoi gesti, circondato da una corte che lo venera e se ne prende cura amorevolmente, per consentirgli di risplendere nell’arena.
La macchina da presa quasi sempre utilizza un teleobiettivo che schiaccia il matador e il toro, in uno spazio di cui non si misurano i confini. Quello che conta è il particolare, lo sforzo, lo sbuffo, la tensione del volto, la poesia nervosa del gesto. Completamente escluso dalle immagini è il pubblico. Non vedremo mai chi affolla gli spalti della corrida: rimangono spesso solo le voci di chi assiste, una sorta di coro che si confonde con il rumore di fondo.
Lo spettacolo di Pomeriggi di solitudine è per noi che guardiamo lo schermo. Siamo noi i voyeur di questo sacrificio atavico, fuori tempo massimo. Ma sappiamo tutti che il gioco è truccato, la sfida non è leale, il copione è già stato scritto, secondo un sapiente dosaggio di tempi e ritmi.
La tensione è sempre palpabile, l’incidente possibile: per un attimo anche il divino Andrés, ferito da un toro, col vestito squarciato e il volto rigato dal sangue, sembra perduto. Ma è solo un istante, prima di riprendere coraggiosamente la spada per regalare al pubblico il finale che tutti si attendono.
Non ci sono donne in questo film che mostra un rituale tutto al maschile, che gioca con una virilità antica, ancestrale, non estranea a una dimensione omoerotica continuamente esaltata dall’ossessione per il corpo del matador, oggetto di idolatria e cura minuziosa.
Serra ha girato per tre anni, inseguendo il suo protagonista con tre macchine da presa digitali, registrando quasi 600 ore, che sono state poi raffinate nelle due che appaiono sullo schermo, cercando di catturare l’imprevisto, lo scarto, la realtà che increspa il rituale.
La scelta di evitare cartelli, voci off, interviste, confessioni, dialoghi, restituisce al documentario la sua dimensione puramente testimoniale, lasciando allo spettatore il giudizio e la morale.
Quello che interessa a Serra è riuscire a catturare assieme la bellezza sinuosa, ipnotica della liturgia, la purezza nervosa del gesto, del dialogo tra vittima e carnefice e al contempo la sua brutalità, la sua ferocia, il sangue che macchia i vestiti, le picche che trafiggono l’animale, le orecchie mozzate alla fine.
“Io non conosco affatto il mio protagonista” ha detto Serra a San Sebastian dove il film ha debuttato. Ed è tanto una constatazione quanto forse un obiettivo del suo lavoro. Se Welles, un altro titano affascinato dalle corride, ci ha insegnato qualcosa è che la vita umana è spesso impenetrabile, l’unica possibilità di raccontarla è attraverso le sue contraddizioni: il matador Andrés Roca Rey ne esce allora come una figura omerica, intrisa di bellezza e orrore, di modernità e spirito ancestrale, assieme sensuale e romantico, ma anche profondamente vampiresco nella sua ansia di morte. Un personaggio senza profondità psicologica, il cui vero privato resta inaccessibile, anche quando la macchina da presa ne indaga i momenti più intimi.
Sullo schermo c’è solo il suo personaggio, completamente trasfigurato nel suo ruolo.
In Italia grazie a Movies Inspired. Film dell’anno per i Cahiers du Cinéma.

