C’erano una volta quattro ragazzi che giocavano alle sedute spiritiche e c’era una volta la giovane Gracie Darling, che durante una di queste simpatiche serate fu posseduta da uno spirito di nome Levi. Di Gracie, abbandonata in uno stato di trance nel capanno dove si svolgeva il rito, non si seppe più nulla. Quel tempo quasi mitico appartiene a un’era sepolta, per la precisione ai lontani (ebbene sì!) anni Novanta.
Playing Gracie Darling è una miniserie australiana ideata da Miranda Nation e curata in termini di regia da Jonathan Brough. Alla famiglia Darling gli autori non riservano una sorte particolarmente fortunata. Dopo Gracie, ventisette anni più tardi scompare anche la figlia di sua sorella Ruth, Frankie. Le circostanze della sparizione sono incredibili. La compagnia di Frankie (adolescenti non troppo socievoli) si diletta nel gioco ispirato a Gracie Darling. In pratica, evocano il medesimo spirito, l’irascibile Levi. Anche i luoghi sono gli stessi. Tra i boschi si aggira una presenza che chiede di essere liberata e chi viene preso di mira è sempre qualcuno dei Darling. Perché?
Joni Gray era una del gruppo. Ormai adulta, abbracciata la professione di psicologa adolescenziale e diventata madre di due figlie, viene a sapere della nuova sparizione da Jay, l’unico ragazzo che all’epoca partecipava alle sedute, ora agente di polizia. Joni, interpretata dall’attrice neozelandese Morgana O’Reilly, ritorna nel natio borgo selvaggio e inizia a indagare sul caso con un certo grado di autonomia. Al termine della prima puntata abbiamo già una svolta. Le ricerche hanno un esito drammatico. Joni si imbatte in un corpo carbonizzato. Il walkman completamente fuso è un indizio preciso. Nessuno ascolta più i CD o le musicassette, quindi non può essere Frankie. Quello è il cadavere di Gracie.
I flashback ci portano avanti e indietro nel tempo. Gracie spicca, con la sua personalità esuberante, sulla più impacciata Joni. Jay, innamorato di Joni, appare bloccato dalla timidezza. La quarta del gruppo, Anita, sarebbe poi diventata la moglie di Jay. Tutto però ruota attorno ai Darling. Peter, il cugino di Ruth, entra in scena con prepotenza. Da giovane tagliava l’erba del prato di famiglia esibendo il suo fisico invidiabile. Da adulto incontra Joni e la seduce, finché le indagini sulla sparizione di Frankie sfiorano anche lui. Il suo rapporto con Ruth, alla luce di una rivelazione scioccante, assumerà una connotazione imprevista.
A poco a poco, l’evento originario si consolida fin nei dettagli. Una collanina, una fotografia di Gracie con gli occhi bucati, un mixtape di canzoni, una registrazione tanto simile a un mantra: Let Me Out. L’ignoto straripa nella vita reale e i fantasmi tornano di frequente. Sono apparizioni orrende che avvicinano alla verità. Lulu, la figlia minore di Joni, soffre di incubi. Mina, la figlia maggiore, cerca di entrare in connessione con Levi, iniziando così una sua personale esplorazione del trascendente.
La biografia di Joni è segnata da un ricovero in una clinica psichiatrica immediatamente dopo la scomparsa di Gracie. I suoi genitori divorziarono e lei, con la madre, si trasferì lontano, nella speranza di dimenticare. In uno dei passaggi meno credibili della serie, assistiamo ad una seduta di terapia condotta con l’ausilio di una tavoletta ouija. Ad ogni modo, Levi non si tira mai indietro e fornisce risposte ai quesiti che gli sono posti. Nessuno vuole sapere se il bicchierino sul quale i ragazzi mettono il dito venga effettivamente mosso da uno spirito oppure il rito magico sia il prodotto di una sinistra fascinazione creata ad arte da qualcuno.
L’ipotesi della manipolazione si fa largo. Joni cerca spiegazioni psicologiche o razionali laddove tutti propendono per il soprannaturale. I fenomeni di possessione sono ricondotti a casi di isteria di massa dovuti a vissuti traumatici. Per spiegare il contagio (l’ultimo tentativo di evocare Levi provoca un malessere di gruppo simile all’epilessia), Joni cita una forma di empatia disadattiva, da intendersi come un senso di colpa interpersonale. Le visioni di mostri e spettri non sarebbero altro che gli effetti della paralisi del sonno. La psicologa ottiene qualche conferma ai propri sospetti. I giovani ammettono di buttare giù pasticche di MDMA. Tuttavia, resta qualcosa di irrisolto. Un simbolo misterioso, una specie di spirale che disciplina le forze della natura (vedasi il volo coreografico degli uccelli), accompagna le investigazioni di Joni e Jay.
La rappresentazione del piccolo borgo australiano è uno stereotipo ragionato, se non addirittura stilizzato, della vita di provincia. L’ambientazione, dislocata in un imprecisato altrove suburbano (cambierebbe poco se, anziché Australia, fosse Inghilterra rurale o America profonda), accentua il senso di immobilità del presente. Lo scorrere del tempo, cioè la distanza tra il mondo di allora e quello di oggi, è connotato esclusivamente dalle ovvie conseguenze dell’obsolescenza tecnologica. I supporti analogici del 1997 sono vintage e fanno tenerezza.
La comunità locale, inceppata su stessa, si spegne nei ricordi. Al massimo c’è chi, come Anita, cerca risposte nei video di Youtube. Il gioco di Gracie è l’unico svago per giovani per lo più apatici. È un posto incantato, inchiodato a una tragedia. Domina l’assenza. Non c’è traccia di altro, lavoro, occupazioni o figure di riferimento, salvo il capo del gruppo di preghiera, un “peccatore” trascinato nel caso da post di ragazzine, tra cui Raffy, la figlia di Jay, poi rivelatisi innocue fantasie adolescenziali.
A latere del discorso principale, scopriamo la passione dei Darling per le pale eoliche. I volatili, andandoci a sbattere, ci rimettono letteralmente le penne. Al megaprogetto di energia pulita (un pugno nell’occhio, considerati i bellissimi paesaggi del Nuovo Galles del Sud) si oppone la comunità locale e in particolare l’ombroso Billy, che nell’economia del racconto occupa la classica casella del matto. Billy si prende cura degli uccelli feriti. E se fosse implicato nel caso? Se avesse rapito Frankie? Troppo semplice. Fin dall’inizio, Playing Gracie Darling lascia intravedere qualcosa di torbido. Il vecchio James, pater familias fissato con le penitenze dolorose, vive sotto il peso di una colpa non detta.
La presa di coscienza sui reali avvenimenti di quella notte del 1997 significherebbe per tutti liberazione, sollievo, espiazione. Soprattutto Joni è disposta a compiere, sfidando la paura, un viaggio immersivo nel suo passato, con la speranza di ritrovare i ricordi perduti e una memoria prossima alla verità.
La scomparsa di Gracie equivale a un big bang. L’esistenza felice che precedette la sparizione torna con le sembianze di una terra marziana. Il principale punto di ancoraggio sul terreno accidentato del pianeta remoto che potremmo chiamare adolescenza è la musica. I flashback sono puntellati da brani iconici, da So Real di Jeff Buckley a No Surprises dei Radiohead, con la splendida Fade Into You di Mazzy Star utilizzata per raccontare la spensieratezza, non sempre innocente, di quei giorni.
Siamo forse più abituati alla rappresentazione di nostalgie a favore di altre epoche, che non per gli sfuggenti anni Novanta. Al di là del revival degli Oasis o del ritorno di Tony Blair in versione socio di Trump, una definizione anche sintetica del decennio incastrato tra due crolli, quello del Muro e quello delle Torri Gemelle, non è impresa facile. Certamente fu l’ultimo momento della storia, almeno fino ad oggi, di espansione economica in ogni direzione (la globalizzazione, certo), ma anche di radicale, inesorabile trasformazione della società secondo i canoni dell’intrattenimento (David Foster Wallace, ad esempio). Non meraviglia, perciò, che i giovani Jony, Jay e Anita siano qui chiamati a interpretare il ruolo di inconsapevoli inventori di un brand, messo a disposizione delle generazioni a venire (per le quali il marketing, dopo la X del romanzo di Coupland, ha fornito le lettere successive), trasformando un’esperienza dolorosa in un marchio di riconoscibilità locale.
Playing Gracie Darling, inattuale in termini di sceneggiatura e regia, sarebbe stata alla moda, in termini di scelte stilistiche, trent’anni fa… tanto da indurci a credere che l’ostentata sfumatura vintage nasconda un omaggio metaletterario al mood dei Novanta. Forma e sostanza vanno di pari passo. La serie purtroppo, o per fortuna, odora di tarme, come una camicia di flanella messa nell’armadio ai tempi del grunge e tirata fuori solo adesso. Coerente, no?
Le situazioni risultano prevedibili e molti cliché del mystery, dagli spettri seduti in giardino alle forze invisibili (ecco, mai farsi un bagno da soli se si è troppo impressionabili), fino ai riferimenti ai tarocchi e agli inossidabili druidi, sono presenti. Le case coloniali, notoriamente care agli ectoplasmi cattivi, sono il set ideale di vicende inquietanti. Impossibile rintracciare nella serie qualcosa di innovativo.
Playing Gracie Darling non è Twin Peaks e la povera Gracie non prenderà mai il posto, nell’immaginario collettivo, di Laura Palmer. Eppure, nonostante le premesse elencate, si è spinti ad arrivare in fondo per il banale desiderio di comprendere, al pari di Joni, il reale svolgimento dei fatti. In ultima analisi, il ricorso al soprannaturale è un mezzo narrativo per esplorare barbarie, tormenti e stati di depravazione del tutto umani. L’orrore è qui una propaggine del silenzio, un parente stretto del rimorso. Alcuni personaggi di secondo piano, comunque non rifiniti a sufficienza, contribuiscono a sedimentare quel senso di rustica inquietudine che pervade la cittadina australiana. La fotografia aderisce plasticamente alla cupezza della trama.
Il cast, solo parzialmente australiano, merita attenzione. Morgana O’Reilly dona al personaggio di Jony una forte e nevrotica fisicità. Rudi Dharmalingam e Annie Maynard, interpreti di Jay e Anita, instillano nella coppia scoppiata una convincente dose di tensione conflittuale. Celia Paquola e Anne Tenney, rispettivamente Ruth e Moira, così diverse nell’affrontare la perdita, danno spessore alle melmose atmosfere di casa Darling. Ma è la presenza di Harriet Walter, pur nel ruolo minore di Pattie, a dover essere evidenziata. Attrice britannica che molti rammenteranno di aver visto in Succession, Ted Lasso e soprattutto in Silo, Walter è un’interprete del teatro shakesperiana di primissimo livello. Certamente a suo agio, quindi, in questa serie popolata di fantasmi che vivono, con pari dignità ontologica, accanto ai viventi.
Titolo originale: Playing Gracie Darling
Numero di episodi: 6
Durata: 45 minuti l’uno
Distribuzione: Paramount+
Uscita in Italia: 30 settembre – 28 ottobre 2025
Genere: Drama, Mystery
Consigliato a chi: conosce un rimedio alternativo per le verruche, ha sperimentato l’autoipnosi.
Sconsigliato a chi: ha visto un pipistrello in gabbia, usa le matriosche come nascondiglio.
Visioni, letture e ascolti paralleli:
- L’amore, l’amicizia e quel futuro che non arriva mai al centro di un capolavoro della letteratura australiana: Helen Garner, Come piombo nelle vene, Nottetempo, 2024.
- La musica è arrivata al capolinea? La venerazione per il passato ha bloccato ogni possibile evoluzione? Un classico sul tema è Retromania di Simon Reynolds, Minimum Fax, 2022.
- La sparizione per eccellenza del cinema aussie è Picnic a Hanging Rock di Peter Weir. Una puntata di Storia in giallo (n. 15) dedicata a Miranda e alle sue compagne è ancora disponibile su Raiplay Sound.
Una massima da tenere a mente: il sarcasmo è la forma più bassa di umorismo.

