Una scomoda circostanza – Caught Stealing

Una scomoda circostanza – Caught Stealing *1/2

C’era una volta il tormentato e sanguigno newyorkese Darren Aronofsky, antropologo e regista, affermatosi nel panorama del cinema indie di fine anni Novanta con π – Il teorema del delirio e Requiem for a Dream, capace di vincere il Leone d’oro con The Wrestler e di arrivare vicino all’Oscar con Cigno nero.

Negli ultimi quindici anni tuttavia abbiamo assistito solo ad opere involute, oscure, letteralmente patetiche, lontanissime dalle premesse di un cinema del corpo e del martirio che hanno segnato la sua filmografia precedente.

Caught Stealing tradotto nell’anonimo Una scomoda circostanza (quale peraltro?) è in tutta evidenza il punto più basso di quella che appare come una discesa precipitosa su un piano inclinato.

Uscito in sordina e nel disinteresse generale nel giorno del debutto di quella stessa Mostra di Venezia, di cui Aronofsky è stato più volte protagonista, la commedia interpretata da Austin Butler è poco più che un divertissement alimentare, che annacqua le sue ossessioni in un raccontino implausibile e confuso, consolatorio e vuoto.

Il protagonista è Henry un barista newyorkese, ex giovane promessa del baseball, che il giorno del draft si è andato a schiantare in auto, uccidendo un suo compagno e distruggendosi il ginocchio.

La passione per il gioco, condivisa con la madre che vive in California, e il senso di colpa per aver distrutto i suoi sogni l’hanno spinto ad annegare nell’alcol le sue giornate, fuori e dentro il bar.

Quando il vicino Russ, un punk con la cresta fuori tempo massimo, gli affida il suo gatto perché deve tornare a Londra ad accudire il padre colpito da un ictus, comincia per Henry un’odissea violentissima, che stravolgerà la sua vita.

Dopo essere stato picchiato a sangue da due mafiosi russi Aleksei e Pavel, che lavorano per il portoricano Colorado proprietario di una serie di nightclub, ad Henry viene asportato un rene in ospedale, grazie all’intervento della fidanzata Yvonne.

Nel frattempo la detective Roman della polizia lo informa che il vicino Russ lavora come spacciatore per due truci ebrei chassidisti Lipa e Shmully Drucker e deve essersi messo nei guai.

Non basta il ritorno da Londra di Russ a risolvere i problemi di Henry, che si fanno sempre più dolorosi, tra sbornie, omicidi e fughe.

Il film di Aronofsky perpetua lo stereotipo cristiano della carne e del dolore, facendo del suo protagonista l’ennesimo martire innocente del suo cinema: pestato barbaramente, operato, picchiato e minacciato, senza neppure sapere il perché, perde i suoi affetti e tutto quello che ancora conta, senza poter fare nulla.

Il suo tentativo di comprendere si scontra con il doppio e triplo gioco degli altri personaggi, che usano la violenza per risolvere ogni incongruenza.

Con l’unica ancora emotiva del gatto di Russ, come in una stupida commedia anni ’80 e l’ossessione della wild card per i suoi San Francisco Giants,  Henry si muove in questa storia come una sorta di fantasma: è morto e non lo sa, continuamente sballottato da forze più grandi di lui.

Ovviamente siamo in una commedia e il copione scritto da Charlie Huston a partire da un suo romanzo, gli regala persino un improbabilissimo lieto fine balneare: la ciliegina sulla torta di un film che sembra l’exploitation di un lavoro dei fratelli Coen, sgangherato, improbabile, senza idee e senza anima.

L’unico personaggio vagamente interessante è l’Yvonne di Zoë Kravitz, che purtroppo esce di scena velocemente.

Giustamente inghiottito dall’indifferenza generale (poco più di 290.000 euro raccolti al box office), è un blando campionario di alcuni dei temi forti del cinema di Aronofsky (il senso di colpa del protagonista, la sua spirale autodistruttiva, il bisogno di redenzione) così diluiti nel nulla della storia di Caught Stealing da risultare quasi irriconoscibili.

Poco più di una firma annoiata con la mano sinistra.

Deludente.

 

 

 

 

 

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