Eleonora Duse, la Divina, fa visita alle truppe italiane sul fronte giuliano, durante la Grande Guerra, accompagnata dalla sua giovane assistente Desirée. Il biplano di D’Annunzio vola sopra di loro.
L’attrice si è ritirata da molti anni dalle scene, ma quando la Banca di Berlino, dove ha depositato i guadagni di una vita, dichiara fallimento, Duse non ci pensa un attimo a tornare in scena, con Ermete Zacconi e la sua compagnia, riportando in scena La donna del mare dell’amato Ibsen.
La figlia Enrichetta che vive a Londra è preoccupata per la sua salute, debilitata dalla tubercolosi, ma appare lontanissima dalla generosità vitale della madre, che la caccia persino dal teatro la sera della prima. Le critiche dell’anziana Sarah Bernhardt, che l’accusa di essere rimasta identica a se stessa in un mondo completamente cambiato dalla guerra, spingono tuttavia Duse a scegliere un testo nuovo, Ecuba delle trincee, scritto da Giacomo Rossetti Dubois, che si rivela un fiasco colossale.
Piena di debiti è costretta così a chiedere a D’Annunzio di concederle gratuitamente La città morta da rappresentare a Roma. Nel frattempo il primo ministro Mussolini le attribuisce un vitalizio per meriti artistici e si offre di pagare i suoi debiti, liberandola dalla necessità di calcare le scene. Ma non c’è vita per Duse lontano dal palcoscenico.
Il film di Pietro Marcello è un ritratto d’artista in chiaroscuro, in cui la personalità titanica di Eleonora Duse si confronta con i propri demoni e con quelli che governano l’Italia, trascinandola a fondo nel fascismo.
Sono gli anni febbrili del primo dopoguerra in cui Duse sogna un teatro tutto per sé in cui recitare fino all’ultimo giorno. La sua generosità interpretativa travolge il piccolo mondo borghese e timorato di Dio della figlia Enrichetta, così come le ambizioni dell’assistente Desirée e l’irruenza dell’amato D’Annunzio.
Lo spettacolo non termina sulla scena, ma contagia una vita interamente dedicata alla sua ossessione. Il ritorno sul palcoscenico, reso necessario dai rovesci economici, appare una scelta gioiosamente necessaria, per l’attrice che non desidera altro che la magia del teatro.
Solo che i tempi sono cambiati profondamente e il potere ha compreso quanto l’arte sia utile e pericolosa al tempo stesso, blandendo e corteggiando gli artisti più popolari, fino a condividerne il successo con i mezzi più subdoli.
Se Duse poi conduce un’esistenza disordinata e imperfetta, sul palco padroneggia la scena in modo totalizzante, guidando la sua compagnia senza incertezze.
Pietro Marcello, non dimentico delle sue origini di documentarista, utilizza come sempre in modo magistrale le immagini di repertorio, questa volta colorizzando le immagini in bianco e nero degli anni ’20 e ’30 che ci mostrano i reduci della Grande Guerra, le camice nere fasciste e le immagini di una Venezia inedita, in cui riprende il percorso artistico di Eleonora Duse.
Il film è languido e pieno di slanci, costruito su misura del talento di Valeria Bruni Tedeschi, qui in una delle sue interpretazioni più impressionanti. La sua è una Duse travolgente, fragile e determinata, indipendente e ingenua, in un ruolo che corona una carriera, in cui è stata spesso sottovalutata.
Assai meno a fuoco Fanni Wrochna e Noémie Merlant nei ruoli dell’assistente e della figlia, entrambe schiacciate dalla personalità debordante della Divina.
Il problema di Duse è forse quello di essere stato proiettato nella stessa mattina di The voice of Hind Rajab: di fronte alla forza travolgente e necessaria del lavoro di Ben Hania, il film polveroso e in punta di penna di Marcello, ambientato negli anni fascismo appare un esercizio di stile un po’ fine a se stesso, stucchevole e poco coraggioso anche nel racconto di quel tempo: la mente corre inevitabilmente al clamoroso M – Il figlio del secolo diretto da Wright, che abbraccia lo stesso contesto, la stessa epoca e quasi gli stessi personaggi.
Pavido.

