Il terzo film da regista di Mona Fastvold, sceneggiatrice di tutti i film del compagno Brady Corbet, è una sorta di gospel cinematografico che ricostruisce la vita, le imprese e la morte della misconosciuta Ann Lee, inglese di Manchester, fondatrice di un culto che si diffonde nel New England alla fine del settecento, prima di scomparire dopo la sua morte, inghiottito dai tanti movimenti puritani, metodisti e cristiani che hanno sempre prosperato negli Stati Uniti delal spiritualità prêt-à-porter.
Sposata al fabbro Abraham, introdotta dai coniugi Wardey tra gli Shakers, una piccola congregazione locale che professa una forma di cristianesimo estatico fatto di canti, versi e tremori, Lee perde di parto o nel primo anno di vita tutti i suoi quattro figli.
Convintasi che il sesso sia il peccato capitale da estirpare dalle vite degli Shakers, grazie ai soldi di Hocknell, uno dei suoi seguaci, affronta il lungo viaggio verso gli Stati Uniti, dove trova nel Massachusetts un terreno adatto dove erigere la sua chiesa e dove il fratello William Lee può fare proselitismo e far accorrere i suoi fedeli, delusi da altri culti millenaristici.
Un cartello prima dei titoli di coda ci informa che i fedeli al culto di Ann Lee raggiunsero il numero massimo di seimila.
Il film è una sorta di “vangelo”, recitato dalla giovane devota Mary Partington che racconta le gesta, le visioni e le preghiere di Ann Lee, che appare poco meno di un’invasata, madre dei suoi seguaci, sorella di Cristo secondo l’idea del “secondo avvento“, decisa a mantenere la castità assoluta nella sua comunità, destinandola evidentemente all’estinzione.
Mona Fastvold nelle note che accompagnano il film scrive: “riconosco in lei un desiderio di giustizia, trascendenza e grazia per tutti. La sua radicale ricerca di un’utopia costruita con le proprie mani è segno dell’impulso creativo al centro di ogni sforzo artistico: l’urgente necessità di dare nuova forma al mondo. In particolare, la sua chiarezza d’idee e la capacità di guidare gli altri verso un comune ideale richiamano lo spirito collaborativo che è alla base di qualsiasi impresa creativa, che si tratti di comporre una sinfonia, costruire un edificio o realizzare un film. Ogni disciplina è caratterizzata dalla stessa aspirazione: la ricerca di momenti di grazia”.
Peccato che tutto questo nel suo film sia solo accennato e la sua riflessione resti completamente in superficie: il lavoro dei falegnami, dei costruttori, dei fabbri della comunità non è dissimile da quello che abbiamo visto messo in opera dai pionieri europei in uno qualsiasi dei tanti film sulla Frontiera.
Quello su cui il film si dilunga invece sono le visioni assurde in CGI, i sabba estatici di preghiera e una stupida ossessione per il sesso, anche quello matrimoniale.
Ann Lee è pieno di canti febbrili da musical mistico, di fedeli che si dimenano, danzano, fanno strani versi, ripetono parole come un mantra ossessivo – “Ho fame e sete! Tutto è concerto, tutto è estate! Un posto per ogni cosa, ogni cosa al suo posto!” – fino a rendere impossibile la vita per coloro che entrano in contatto con la loro setta.
Il marito stesso di Ann Lee si allontana quando la moglie decide di darsi alla castità più assoluta, altri fondatori si perderanno per strada o verranno sacrificati sull’altare di una radicalità etica del tutto incomprensibile e bigotta.
Lascia sconcertati che il racconto pretenda dallo spettatore solo una forma di adesione fideistica, come fosse la bieca propaganda di un culto, estintosi peraltro oltre due secoli fa.
Del tutto vano far riferimento al ruolo delle donne nella predicazione o ad un certo vago egualitarismo che Ann Lee manifesta quando vede gli schiavi venduti all’asta, sbarcata in territorio americano.
Il film non ha neppure un qualche valore allegorico o metaforico: non mi pare voglia illuminare in alcun modo il mondo contemporaneo, se non suggerendo di aderire ad un qualche strampalato antico culto, animato dalla solita fobia del sesso, comune ad ogni puritanesimo oscurantista e conservatore.
Non c’è mai uno sguardo critico, rispetto a quello che sentiamo raccontare dalla “evangelista” di Ann Lee e che le immagini si adeguano a ricostruire. Non c’è mai un’ombra se non nelle parole del marito della protagonista che, sul punto di lasciarla, ci rivela il suo completo analfabetismo e quindi la sua incapacità a leggere le scritture o i vangeli.
In un film ideologicamente irricevibile, pieno di momenti di ilarità involontaria, confuso e velleitario, a nulla valgono le altre considerazioni sulla colonna sonora tonitruante e fastidiosa del solito Daniel Blumberg o sulla fotografia di William Rexer talmente scura, granulosa e opaca da sembrare un respingente 16mm gonfiato a 70, con la sola funzione arty di imitare la luce di certi capolavori fiamminghi.
Tutto suona fasullo e posticcio in questo film: vogliamo quantomeno sperare che sia davvero così, perché se l’ispirazione di Mona Fastvold fosse autentica sarebbe ancor più preoccupante.
Abissale.

