After The Hunt

After The Hunt *1/2

Scritto da Nora Garrett pescando a piene mani dalle ossessioni della cultura progressista americana dell’ultimo decennio, come una sorta di manuale illustrato in cui tutte le variabili sono messe in fila in un unico racconto a tesi, After The Hunt è certamente uno dei lavori meno personali e riusciti del regista palermitano.

Ambientato interamente a Yale, tra le aule ovattate, i corridoi rumorosi, il campus e la casa della professoressa Alma Imhoff, in attesa di una cattedra permanente in filosofia, il film accumula trame e sottotrame che vorrebbero metterci di fronte a continui interrogativi etici, che coinvolgono presente, passato e futuro dei suoi personaggi, indifferentemente professori e alunni della facoltà.

Dopo una cena a casa di Alma e del marito Frederick, il collega Hank Gibson accompagna a casa la brillante alunna afroamericana Maggie Resnick, figlia di una famiglia che ha finanziato mezzo campus. Quello che succede quella notte non lo sapremo mai, ma provoca il licenziamento di Hank, i risentimenti di Maggie, i dubbi di Alma e destabilizza l’istituto, costretto a confrontarsi con accuse di molestie con surplus razziale e patriarcale, con la confusione dei ruoli educativi e con la messa in discussione di antiche amicizie e alleanze professionali.

Inutile dilungarsi a raccontare le altre derive che piombano il racconto, tra la compagna non binaria di Maggie, un vecchio caso di stupro denunciato e poi ritrattato da Alma, la sua relazione ambigua con Hank, i suoi continui dolori addominali che la spingono a rubare le prescrizioni della psicologa del campus, mettendo a rischio la sua carriera.

La sceneggiatrice ci tiene a farci sapere di aver pensato a tutte le diverse variabili, trasformando tuttavia il film in un’esposizione di tesi superficiali e stantie: un paper nato già vecchio, nella misura in cui la nuova America di Trump ha fatto piazza pulita in poche settimane di tutta questa cultura della vittimizzazione, che ha imperversato per oltre un decennio nel Paese, fin dal tempo del primo presidente afroamericano.

E’ necessario ricordare che l’istituzione universitaria, come quella scolastica, presuppone una disparità che è l’essenza stessa della sua funzione educativa: eppure, come si vede nel film, la distanza tra alunni e insegnanti, tra cattedra e banchi si è a poco a poco annullata. Non solo a lezione, dove il professore e gli alunni siedono allo stesso tavolo, ma anche nella vita privata dove tutti condividono gli stessi spazi in modo promiscuo, cercando di annullare implicitamente quella disparità iniziale.

Tuttavia i due insegnanti del film continuano ad esercitare sui propri allievi un innegabile carisma, che la loro posizione non pienamente canonizzata all’interno dell’istituzione scolastica, rende ancora più affascinante e irresistibile.

L’accusa di Maggie – opportunista, ambiziosa, privilegiata, falsificatrice? – costringe tutti i personaggi a riposizionarsi, tradendo rapporti consolidati per adattarsi alle nuove coordinate della correttezza politica imperante.

E’ curioso tuttavia come studenti e professori di filosofia non trovino mai nella loro materia d’elezione una bussola per orientarsi nella tempesta che li travolge. In un film pieno di parole, queste restano sempre vuote, perché il confronto con la realtà richiede invece di adeguarsi opportunisticamente al presente, mettendo la sordina alla propria etica personale e alla ricerca della verità.

Nonostante Julia Roberts e gli altri ci mettano una convinzione degna di miglior causa, il film non riesce mai ad appassionare veramente, perché per ogni questione che solleva, preferisce navigare a vista in un mare periglioso di interrogativi sempre più fasulli.

Basterebbe notare quanto inutile e decorativo sia il ruolo di Michael Stuhlbarg nel racconto e quanto il magnifico attore scoperto dai Coen cerchi inutilmente di renderlo interessante, senza mai riuscirci. Lo stesso accade per Chloë Sevigny a cui il film regala sostanzialmente un cameo, funzionale solo a muovere un’altra inutile sottotrama.

Guadagnino impagina con la consueta eleganza, ma non riesce mai davvero a rendere viva una storia nata già morta e che vorrebbe occhieggiare alla contemporaneità con la stessa efficacia di un instant movie in ritardo di cinque anni.

Il film si dimentica nel battito di ciglia che segue la sua conclusione, tanto pretestuosi appaiono sono gli interrogativi che pone, figli di una cultura neopuritana e di un’ossessione identitaria, che si continuano a spacciare per progressismo.

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