Volveréis

Volveréis **

Ottavo film di Jonas Trueba, figlio di quel Fernando, vincitore dell’Oscar per Belle Epoque nel lontano 1992, Volveréis è il primo distribuito nel nostro Paese, dopo l’esordio alla Quinzaine l’anno scorso.

Il regista mette le cose in chiaro sin dalla prima scena: Alex e Ale hanno deciso di lasciarsi dopo quasi quindici anni assieme e hanno deciso di farlo con una grande festa. Secondo il padre di Ale infatti non ci sarebbe nulla da celebrare nel matrimonio, ma molto invece nella separazione, come passo per ricominciare da capo e tornare a stare bene.

Ale è una regista e sta montando il suo ultimo film girato proprio con Alex: set e realtà si confondono, mentre gli amici sembrano non credere davvero alla loro separazione.

Il film si muove quasi interamente in spazi casalinghi: il bell’appartamento borghese pieno di libri che i due condividono ancora, lo spazio dove Ale monta il suo film, la casa del padre, quelle che i due vanno a vedere per ipotizzare il trasferimento di uno dei due.

Il film di Trueba è pieno di parole che ritornano come un’ossessione, quelle di Stanley Cavell soprattutto, il filosofo che ha ridato dignità e spessore alla classica commedia hollywoodiana, decostruendone i motivi e le strutture, ma anche Kierkegaard, che non si è mai sposato e che sulla ripetizione e la riminiscenza ha lavorato a lungo.

Volveréis è infatti un film di continue ripetizioni, ritorni, ribattute, che si muove circolarmente attorno a quell’unica idea annunciata nella prima scena e continuamente ribadita. Non è tanto una commedia del ri-matrimonio, di cui non ha i ritmi, la brillantezza dei dialoghi, il conflitto tra i protagonisti, ma guarda piuttosto a Rohmer a Linklater, navigando tra cinema e vita con una certa intelligenza.

Ma al di là della continua sovrapposizione di piani anche biografici – perché il padre di Ale è davvero il padre di Jonas Trueba e perchè il set in cui irrompe la regista cercando Francesco Carril è quello di Dieci Capodanni di Rodrigo Sorogoyen – Volveréis parla tanto di sè e del suo farsi, postmodernamente, eppure non riesce mai davvero ad interessarci: i due protagonisti sono figurine esili, di sfondo, la loro logorrea ritorna sempre sugli stessi temi, gli amici che li incontrano non hanno alcuno spessore autonomo e tutto si risolve in una speculazione teorica che rimane fredda, distante, tutta cerebrale.

Trueba non ci strappa mai non dico una risata, ma un sorriso, mentre i 110 minuti del film si fanno interminabili e si vorrebbe arrivare solo a questa benedetta festa d’addio, che poi ovviamente vedremo solo sui titoli di coda.

La stessa dimensione metanarrativa è un giochino da ragazzini, fuori tempo massimo, che nulla aggiunge al contesto e alla storia.

Per chi ha attraversato interamente negli ultimi cinquant’anni il cinema di Woody Allen, quello di Eric Rohmer, persino quello di Richard Linklater, Volveréis è davvero poca cosa.

Nel complesso il recupero è deludente e modesto.

 

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