Cannes 2025. Resurrection

Resurrection ***

Il cinema è morto. Si è liquefatto assieme ai suoi spettatori, figlio di un Novecento che è ormai alle nostre spalle.

Eppure Bi Gan, enfant prodige dell’ottava generazione del cienma cinese, al suo terzo lungometraggio in un decennio, dopo l’inedito Kaili Blues e l’epocale Un lungo viaggio nella notte, sembra ancora voler raccontare le sue illusioni.

Immagina un mondo in cui l’uomo ha scoperto di poter vivere in eterno senza sognare. I pochi che si ostinano a farlo sono Fantasmer, creature solitarie e notturne, capaci di vedere il futuro e attraversare il tempo.

Una fotografa si mette alla ricerca di queste creature e in una fumeria d’oppio ne trova una d’aspetto mostruoso: la rapisce e ne libera il potenziale affabulatorio, scoprendo che la sua fantasia è fatta di celluloide.

Il prologo di Resurrection è un omaggio a colori al cinema delle origini, dall’arroseur dei Lumière all’espressionismo tedesco, con uno stile e un formato che richiamano esplicitamente le ossessioni che hanno segnato il secolo scorso.

Rimesso in moto il meccanismo mostruoso del Fantasmer, quello che vediamo è un lungo viaggio nel tempo, in quattro tappe diverse. La prima comincia su un treno (… e dove altro potrebbe?) con un noir in tempo di guerra, tra specchi, doppi, una valigia perduta e un investigatore che finisce per scoprirsi vittima e colpevole assieme, mentre il theremin rilancia note sorde che spalancano le porte dell’inferno.

Nel secondo capitolo ci spostiamo trent’anni dopo in un tempio buddista saccheggiato da ladri di cimeli. Quando riempiono il furgone, uno di loro rimane indietro e qui gli appare lo spirito dell’amarezza, che finisce per trasformarlo in un cane.

Il terzo episodio è ambientato in un tempo ancora più prossimo, con un prestigiatore che insegna ad un bambino i poteri sovrannaturali che ogni uomo possiede quando è triste o arrabbiato.

Infine l’ultimo capitolo prima dell’epilogo che ci riporta circolarmente alla fotografa e al Fantasmer dell’inizio, è una struggente storia d’amore ambientata la notte del Capodanno del 2000, tra il protagonista Apollo e Thai, una cantante di night, legata al misterioso Mr.Luo, il capo della Raincoat Mob. I due si inseguono nei vicoli di una città portuale, attraversano la notte, cantano al karaoke, promettono di amarsi, si scontrano con il boss, fuggono e salpano all’alba su una chiatta rossa, verso un’orizzonte impossibile da raggiungere.

Il protagonista di tutti i racconti è l’attore e cantante Jackson Yee, in un ruolo che Tony Leung sarebbe stato perfetto per interpretare trent’anni fa. Shu Qi è invece la fotografa, che appare solo nel prologo e nell’epilogo.

Il film di Bi Gan è un abbraccio ai fantasmi del passato e una testimonianza della resistenza di un immaginario ancora capace di dirci tutto di noi. Il cinema nelle sue mani è un’esperienza che consuma e distrugge, ma che consente anche di rinascere continuamente, di riprendere il discorso interrotto della storia, di continuare a vivere le vite degli altri assieme alla nostra.

Ci sono le citazioni esplicite da Melville, da Welles, da Wong Kar-Wai oltre a quelle del cinema delle origini, ma troppe sarebbero le suggestioni da elencare in questo film-saggio, che pure non ha nulla di accademico, ma si muove furtivo, appassionato e violento come il miglior cinema di genere.

Non tutti i sogni sono effettivamente a fuoco e significativi, ma l’ultimo – costruito su un solo infinito piano sequenza, come la seconda parte di Un lungo viaggio nella notte – è semplicemente magistrale, riassumendo tutto quello che Francis Scott Fitzgerald pensava fosse “fare cinema”: mistero, movimento, tensione, rabbia, dubbio. Apollo e Thai sembrano i vampiri di Jarmush e gli amanti di Wong, immersi in una luce prima rossa in modo soffocante, poi blu livida, quando la soggettiva di Mr.Luo lascia spazio ad una nuova oggettiva che libera i due personaggi verso l’aurora.

Alla fine Resurrection riprende la metafora iniziale del cinema come dispositivo fantasmatico, notturno, capace di produrre senso e storie, ma anche morte e rinascita. La cera si consuma, sta allo spettatore fare in modo che la fiamma non si spenga.

Forse Bi Gan non ci dice nulla che non sia già stato detto e scritto fin dalla seconda metà del Novecento, lo fa tuttavia facendo cinema, raccontando storie, continuando mostrare una capacità affabulatoria non comune, in quello che è certamente un atto d’amore, ma vitale, esagerato, pieno di furore adolescenziale e di fiducia in un cinema che muore e risorge come una fenice, se è ancora in grado di affascinare e sedurre.

Sorprendente.

 

Un pensiero riguardo “Cannes 2025. Resurrection”

  1. Una recensione davvero interessante e con una trama che mi ha incuriosito. Magari non sarà perfetto ma amo profondamente quelle opere che provano a dare qualcosa di originale e che ha una forte volontà di narrare qualcosa di profondo.

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