The History of Sound *1/2
Il sudafricano Oliver Hermanus è per la prima volta in concorso a Cannes con un film talmente didascalico e ridondante da chiedersi il perché questo debutto non sia stato rimandato ancora un po’.
Tratto da un racconto di Ben Shattuk che l’ha adatto anche per lo schermo, racconta l’incontro al New England Conservatory di Boston nel 1917 di Lionel Worthing e David White, due studenti di composizione e coro, che entrano immediatamente in sintonia grazie alla comune passione per il folk popolare americano.
Amici, complici, amanti. La loro relazione viene interrotta dalla guerra: David si arruola mentre Lionel ritorna alla fattoria di famiglia.
Nel 1919 una lettera di David, professore nel Maine, convince Lionel a seguirlo per registrare su incarico dell’Università, grazie a dei cilindri Edison di cera un inedito songbook locale, attraversando tutta la regione per scoprire nuove canzoni popolari, da immortalare a futura memoria.
Il viaggio lungo un intero inverno cementa il rapporto tra i due, ma quando il compito finisce, David sparisce per sempre, evitando di rispondere alle lettere che il compagno gli scrive.
Lionel si trasferisce prima a Roma, a cantare in un prestigioso coro ecumenico e poi a Oxford, dove frequenta una ragazza innamorata di lui, che tuttavia abbandona presto, per tornare senza motivo alla sua fattoria, quando i genitori sono ormai defunti. Solo nel 1925 si decide a rintracciare David presso l’Università del Maine.
Quello che scoprirà sarà incredibilmente sorprendente.
Il film di Hermanus è un melò che sembra bruciare le tappe in modo velocissimo. Dopo pochi minuti i due protagonisti hanno già consumato interamente il loro tempo assieme: quello che resta è la distanza che li separerà per tutta la vita.
The History of Sound è pedante, lacrimoso, capace di un solo registro: il patetico. E per quasi due terzi si fa carico della più ordinaria delle storie d’amore sfortunate, ma non per la natura omosessuale del rapporto che lega Lionel e David, che pur un secolo fa non viene per nulal ostacolata e non rappresenta mai un ostacolo alla felicità dei sue protagonisti, quanto per un sentimento impalpabile che scopriremo solo alla fine.
Il polpettone firmato da Hermanus cresce solo alla distanza, quando finalmente nell’incontro tra Lionel e la moglie di David, il mistero si scioglie in uno spiegone che ha il compito di colmare tutti i buchi, con la solite sottolineature grevi a cui il peggior cinema americano ci ha abituato.
Anche il finale, ambientato nel 1980 arriva telefonato e un po’ ricattatorio per l’ultima lacrima un attimo prima dei titoli di coda.
Josh O’Connor e Paul Mescal faticano con un copione così ellittico, che li imprigiona in ruoli la cui credibilità psicologica è francamente poco realistica.
Il film soffre e soprattutto nella parte romana e inglese sfiora più volte il ridicolo involontario.
Da dimenticare.
