Con il suo terzo lungometraggio la catalana Carla Simon (Estate ’93) affronta di petto la morte dei propri genitori, in un lavoro di fortissima impronta autobiografia a cui forse avrebbe giovato una maggiore distanza emotiva e psicologica.
Dopo aver vinto l’Orso d’Oro con Alcarràs, Simon debutta in concorso a Cannes affidando a Llùcia Garcia il ruolo di Marina, una neodiciottenne che si sposta per l’estate da Barcellona a Vigo, dove vive la famiglia di suo padre: i nonni, gli zii, i tanti cugini.
Siamo nel luglio del 2004 e scopriamo che Marina ha perduto entrambi i genitori ed ha una madre affidataria, che l’ha cresciuta in Catalogna, lontana dalle sue origini.
All’anagrafe il certificato di morte di suo padre non riporta la sua esistenza. L’ufficiale civile le chiede così di produrre un atto notarile con le dichiarazioni dei suoi nonni, per consentire di correggere l’errore.
Marina viene accolta dalla grande famiglia con sentimenti diversi: curiosità, affetto, diffidenza, persino ostilità. Il peso del passato è ancora soverchiante. Suo padre e sua madre, la loro vita, la loro morte sono ancora un tabù.
Ciascuno ha una versione differente: vivevano vicino alla spiaggia, no in un grattacielo; il padre Fon è morto nel 1987, no nel 1992; i genitori l’avevano rinchiuso in casa dove è morto; non è vero, quando si muore, si muore sempre da soli; si vergognavano di lui.
Le vecchie foto alle pareti della casa familiare rimandano immagini sfuocate. La verità emerge a poco a poco, Marina ne conosce una versione, che si arricchisce di brandelli che le vengono raccontati a mezza voce.
Ad aiutare la protagonista anche il diario scritto dalla madre, che ricostruisce quegli anni ’80 vissuti pericolosamente.
Romería è un film troppo vicino alla sua regista, che non riesce a tenerlo sotto controllo. Il racconto è frammentato, ondivago, talvolta inutilmente simbolico, altre troppo ellittico: la temperatura emotiva sale, fino ad esplodere nelle immagini in cui Marina sogna improvvisamente i suoi genitori, il loro amore maledetto, la loro libertà senza argini, i loro demoni, con i colori esagerati degli home movies di quegli anni.
Ma è la parte più debole di un film che funziona finché il mistero rimane nelle parole.
La struttura si piega, sbanda, non riesce a contenere il dolore e il ricordo, in un film costruito interamente sull’assenza, ma anche sugli incontri che consentono alla protagonista di cominciare a capire, finalmente.
Marina guarda, vede, spia quella famiglia di cui è un corpo estraneo, un catalizzatore di emozioni che tutti hanno seppellito in un passato lontano, negando persino quello che è accaduto.
Simon preferisce non giudicare, ma è evidente l’adesione totale con Marina, con la sua ansia di sapere, di capire, di conoscere: se è vero che tutte le famiglie felici sono uguali e ogni famiglia infelice lo è modo suo, quella del film ancora non è riuscita a metabolizzare l’assenza di Fon e ha scelto di occultarla.
Come il diario della madre, che Marina legge solo in parte, saltando mesi, talvolta anni, il film è tanto personale quanto irrisolto.
Nel suo continuo squilibrio anche il finale del film chiude troppo, rispondendo alla domanda posta inizialmente a Marina, che tuttavia non risolve nulla sul piano emotivo e identitario, accontentandosi di mostrarci solo il ristabilimento di una verità burocratica.
Spesso il cinema diventa lo spazio del ricordo, ma la memoria sullo schermo non può che apparire trasfigurata e perturbante. Romería è esattamente così: sgradevole, oscuro, frammentato.
Eppure al suo cuore c’è solo una storia sbagliata di due anime troppo fragili, figlie di un tempo che a Cannes 78 abbiamo già visto centrale, quasi fosse arrivato davvero il momento di fare i conti con la fine delle illusioni.

