Dopo Io sono ancora qui premiato a Venezia e candidato agli Oscar, un altro film brasiliano ripercorre la stagione della dittatura militare, questa volta nella Recife del 1977, la capitale del Pernambuco, nell’estremo nordest del Paese, che Kleber Mendonça Filho conosce molto bene essendoci nato nel 1968 ed avendo frequentato l’Università di giornalismo, da giovane critico cinematografico.
Anche L’agente segreto è un film politico e così come il lavoro di Salles, affronta il tema della dittatura dei gorillas, da una prospettiva certamente originale.
Marcelo, il protagonista, che si trasferisce a Recife su un maggiolone giallo, viene ospitato da Dona Sebastiana in una grande casa in cui abitano quelli che uno degli inquilini chiama “rifugiati”: sono testimoni di giustizia, ricercati dalla polizia politica, persone in fuga che hanno cambiato identità e cercano di rifarsi una vita, prima di cercare la fuga all’estero.
Marcelo ha lasciato il figlio Fernando, ancora piccolo, al suocero proiezionista, dopo aver denunciato in passato le ingerenze sul suo dipartimento universitario dell’imprenditore criminale Ghirotti, che influenza le politiche energetiche del Paese e non vuole che nella piccola università di provincia si brevettino motori elettrici o nuove tinture ecologiche per il pellame.
La moglie di Marcelo è stata la prima vittima della ritorsione dell’imprenditore di origini italiane, il quale ha ordinato a due sicari la morte di Marcelo – che in realtà si chiama Armando – con un contratto da 60.000 cruzeiros.
E così mentre Marcelo viene assunto all’Istituto di Identificazione, che si occupa di certificare le identità dei cittadini e in cui spera di ritrovare anche quella perduta della madre, deceduta molti anni prima, i killer lo cercano in città, anche grazie all’aiuto del tenente corrotto Euclide Cavalcanti e dei suoi uomini.
Nel frattempo l’uscita nei cinema de Lo squalo di Spielberg scatena una sorta di psicosi collettiva, quando si scopre nel ventre di uno pescecane la gamba mozzata di uomo.
Kleber Mendonça Filho compie un’operazione molto originale, scardinando e depotenziando il linguaggio del suo thriller, privilegiando l’attesa e l’accumulo di elementi, all’incedere incalzante del racconto, vanificando così qualsiasi attesa drammatica e lasciando il pubblico confuso sull’identità, il passato e gli obiettivi di Marcelo per oltre metà del suo film.
Il prologo surreale con il cadavere abbandonato a lato di una pompa di benzina, l’assalto dell’uomo vestito da pollo e il controllo della polizia al beetle di Marcelo: sono immagini che ci precipitano nell’assurdità di un Paese allo sbando e lasciano presagire una tensione che invece monterà solo nell’ultimo atto. L’agente segreto dissipa il suo tempo accumulando elementi inessenziali, personaggi marginali, richiudendo la storia del protagonista in una cornice contemporanea che rimane oscura sino all’epilogo.
E anche quando finalmente il film assume i toni d’azione, le pistole sparano e i corpi cadono dilaniati dalla violenza, il regista decide di interrompere l’escalation e di suggerire il destino di Marcelo solo attraverso una foto e un articolo sul giornale locale, esaminato cinquant’anni dopo da una studentessa di un’università privata.
Non mancano sorprendenti momenti di ironia demenziale all’interno di un film che cerca di esplorare come gli individui operino all’interno di un sistema oppressivo, come resistano o si sottomettano, ma senza dimenticarsi che questi personaggi hanno anche vissuto quegli anni opachi, attraversando anche le banalità della vita: L’agente segreto restituisce l’atmosfera malsana della dittatura, il clima di sospetto costante, ma è distante dai meccanismi implacabili del cinema americano o di quello europeo sulla Cortina di Ferro. Qui prevalgono l’improvvisazione, le iniziative personali, i killer che sbagliano persona, i poliziotti corrotti ma goffi, gli invisibili che rivelano la propria identità, i confidenti che non si preoccupano troppo di coprire le proprie tracce. La stessa psicosi della gamba mozzata diventa arma di distrazione di massa, alimento per fake news e leggende, che distolgono l’attenzione dei lettori e del pubblico dalla realtà del Paese.
L’agente segreto è un film di tracce disperse, frammentarie, assieme ad identità perdute nel tempo, figli che non ricordano più i loro padri, come confessa Fernando nel finale alla studentessa: “ricordi molto più tu di mio padre di quanto ne abbia memoria io”.
La dannazione del ricordo, la cancellazione dell’esistenza, così centrali in Io sono ancora qui, ritornano in modo diverso anche nel film di Mendonça Filho, che cresce alla distanza, quando il caos della prima parte si stempera nella resa dei conti della seconda e nella malinconia del tempo perduto su cui il film trova la sua magnifica conclusione.
L’agente segreto chiede molto al suo pubblico, ma quella fiducia in qualche modo è ripagata da un lavoro lontano da ogni ruffianeria.

