Urchin **
Il debutto alla regia di Harris Dickinson, modello e poi attore, protagonista della Palma d’Oro Triangle of Sadness due anni fa, poi dello scandaloso Babygirl e ora interprete di John Lennon nel quartetto dei film sui Beatles di Sam Mendes, è quello che gli anglosassoni chiamerebbero character study, ovvero il ritratto di un solo personaggio.
Michael è un senzatetto che vediamo all’inizio risvegliarsi una mattina dopo aver dormito su un marciapiede: chiede l’elemosina per strada, si prepara un giaciglio di fortuna per la notte successiva, poi si scontra con l’amico Nathan, che gli ha rubato il portafoglio.
Li divide un giovane di colore, che si offre di pagargli il pranzo e cerca di capire qualcosa di lui. Mike lo ripaga picchiandolo in un vicolo e rubandogli orologio e soldi.
Subito arrestato dalla polizia anche grazie alle telecamere di sicurezza, finisce in carcere per otto mesi. Quando esce i servizi sociali si occupano di lui: gli trovano un posto per un paio di mesi in un ostello e lo spingono a cercare un lavoro. Il primo impiego nella cucina del malfamato City View Lodge sembra funzionare davvero, ma l’incontro con la vittima, nel quadro delle prassi di giustizia riparativa lo precipita nei suoi incubi.
Si fa licenziare dall’albergo, quasi senza opporsi e trova un lavoretto come spazzino per una cooperativa. Qui conosce Andrea, che lo ospita nel suo trailer lontano dalla città. Ma la spirale autodistruttiva di una nuova dipendenza lo precipita nel vuoto cosmico che lo attende alla fine dei giochi.
Il film di Dickinson sembra un Loach minore, tutto dalla parte degli ultimi di una società che stenta ad accorgersi della loro presenza. Eppure Urchin alterna al naturalismo della messa in scena e al pedinamento della realtà delle fughe verso il metafisico, l’infinitamente piccolo e l’universo più vasto: sono visioni di Mike, i suoi incubi o più semplicemente il disegno più grande di una natura inconsapevole e indifferente?
Difficile dirlo, ma offrono comunque una via di fuga, un respiro diverso rispetto al microcosmo opprimente del protagonista, incapace di sottrarsi alla spirale di fallimenti e recriminazioni in cui ha avvolto la propria vita.
Come un bambino Mike ha bisogno di costante empatia, di conferme continue, incapace semplicemente di adeguarsi alla ordinarietà del mondo in cui è ormai ai margini.
Interessante l’interpretazione di Frank Dillane, che viene dal mondo di Harry Potter e dalla serialità (Sense8, Fear the Walking Dead, The Girlfriend Experience) e che qui si adatta alle montagne russe emozionali di Michael in un ruolo che sembra rievocare senza intellettualismi, ma con lo stesso dolore di vivere, il personaggio di David Thewlis in Naked di Mike Leigh.
Come spesso accade agli esordi degli attori, il film è tutto dalla parte dell’interpretazione, sbilanciato e prevedibile.
Attendiamo almeno il secondo passo, per decidere la direzione del percorso.
Il giudizio resta sospeso.
