Il nuovo film del galiziano Oliver Laxe, francese e spagnolo assieme, convertitosi all’islam e devoto del sufismo, si apre con una didascalia che ci spiega come il sirāt al-mustaqīm sia il sottilissimo ponte che conduce al paradiso e che ogni anima deve percorrere rischiando di cadere all’inferno.
I personaggi del suo racconto sono esattamente in quella condizione e il film non è altro che il ponte, molto diverso però da quello che possiamo immaginare.
Siamo in Marocco e una cassa alla volta, un gruppo di dropout costruisce un muro del suono per un rave clandestino che si protrae a lungo, estaticamente, fino a che non intervengono i militari a interrompere tutto.
Tra i ragazzi del deserto c’è qualcuno che immediatamente sembra un estraneo: è Luis, un padre corpulento che cerca la figlia scomparsa da mesi, che ha fatto perdere le sue tracce. Ad accompagnarlo l’altro figlio, Esteban, con il suo cagnolino Pipa. Hanno preparato dei volantini con le foto della ragazza scomparsa, ma nessuno sembra conoscerla.
Quando un paio di caravan si staccano dalla colonna creata dai militari e fuggono nel deserto, Luis li insegue e si unisce a loro: c’è un altro rave a Sud, vicino alla Mauritania. Sua figlia potrebbe essere lì.
Tra Luis, Esteban e il gruppo di raver si costruisce un legame fatto di benzina acquistata assieme, pasti condivisi, montagne da superare.
Solo che mano a mano che il viaggio prosegue si fa sempre più mistico e irreale, tra musica, LSD, fame, cercando una dimensione spirituale che non riesce mai a raggiungere. L’ultimo atto che si apre con un’evitabilissima tragedia, spinge il film verso un campo minato di assurdità surreali, incubi, dolore e morte.
E’ del tutto evidente che Laxe fa un cinema che divide, lontanissimo dalle coordinate tradizionali. Il suo lavoro è manipolatorio, confuso, lisergico nel senso più autentico del termine. La narrazione è sfrangiata, i tempi dettati dal suono di questa musica assordante, sorda, che non è da ascoltare, ma solo da ballare.
E i suoi personaggi finiscono così per ballare con le proprie vite, già marginali e vuote, indifferenti a tutto e lontane da ogni affanno quotidiano. Pronte a saltare per aria.
Letteralmente.
Sirat è un film che si può rifiutare del tutto e ridurre a divertissement assurdo, pretenzioso e arrogante, tutto preso dai suoi vaneggiamenti, oppure si può cercare di sentirlo fisicamente, lasciandosi trasportare dalla trance, da quello stato di alterazione insensata che è il suo vero spirito guida e che come un rabdomante dovrebbe condurci alla fonte del nostro male di vivere.
Forse Herzog è lontano, così il millenarismo alla Mad Max, ma quei vecchi camion che avanzano nella notte assomigliano a quelli de Il salario della paura di Friedkin, non meno maledetti e destinati al disastro.
Resta la fascinazione per culture e sottoculture lontane e incomprese, forse troppo spesso tenute ai margini.
E resta il dubbio che Sirat sia autentico, ma dissennato, capace di avvolgere il panorama dell’Atlante con uno sguardo illuminante e complice, ma assai meno in grado di immergerci i suoi personaggi, destinati infatti all’autodistruzione.
Ci sono i fratelli Almodovar tra i produttori di questo incubo che purtroppo si perde nel ridicolo involontario. O forse è proprio quella la fine inevitabile del trip?


