Una famiglia tedesca nella campagna di quella che fu la Germania Est, attraverso quattro generazioni. Un racconto che brucia il tempo, lo piega, lo dilata, confondendo cause ed effetti, responsabilità e colpevolezza.
Al centro del racconto quattro donne, dal primo Novecento ai giorni nostri, con le loro inquietudini, la scoperta del sesso e del desiderio, all’interno di famiglie diverse, le prime patriarcali e matriarcali, poi sempre più incasinate e fragili, ma non meno abusive.
C’è spazio per giochi proibiti, per gambe amputate per evitare la guerra, suicidi insopportabili e fughe improvvise, sparizioni e malattie psicosomatiche, dolore diffuso, nebbia dell’anima, fantasmi che ritornano dal passato per insinuarsi nelle vite degli altri.
Le quattro protagoniste sono la giovanissima Alma, la figlia più piccola di una famiglia che abita la fattoria all’inizio del secolo scorso. La sua discendente Erika vive negli anni ’40, segretamente innamorata dello zio Fritz, che passa le sue giornate a letto, dopo aver perso la gamba.
Negli anni ’80 vive invece l’adolescente Angelika, figlia della sorella di Erika, che attira le attenzioni proibite dello zio Uwe e del cugino Reiner, sotto gli sguardi troppo silenziosi della madre Irm.
Infine nella nostra contemporaneità, la casa colonica è abitata da una coppia di berlinesi con le loro figlie, apparentemente senza relazioni con la famiglia che ha posseduto quella casa nel secolo precedente.
Il secondo film di Mascha Schilinski dopo Dark Blue Girl del 2017 affronta poeticamente il mistero dei legami familiari e del peso del destino sulla vita delle giovanissime protagoniste, che sembrano accomunate dalla stessa ansia e dagli stessi interrogativi.
All’interno di un contesto rurale e nello spazio ampio di una grande fattoria in cui più nuclei si avvicinano pericolosamente, Schilinski cerca faticosamente una poesia che non trova mai, confonde le linee temporali, gioca con la fotografia, sgrana, sfuoca, introduce una quantità di simboli che sarebbero bastati per cinque film – dall’acqua, al confine, dalla sindrome dell’arto fantasma, alla fotografia che tradisce la morte – ma il suo è un tentativo pasticciato che non riesce mai davvero a mostrare il mistero e la tensione, restando un gioco a somma zero, che fa rimpiangere la delicatezza di Peter Weir e la sua capacità di evocare l’inesprimibile.
In Sound of Falling c’è invece tutto l’affanno di sentirsi importante: certo il piano sequenza dell’inizio con la domestica che insegue le sorelle dopo lo scherzo degli zoccoli è strepitoso, certo le fotografie con i personaggi sfuocati che spariscono e quella finale con gli occhi tenuti aperti sono idee formidabili, ma poi cosa resta di questi notevoli exploit se la storia procede faticosa, a passi incerti, confusi? E’ una nota stonata anche il cupissimo sound design, che esaspera i rumori della natura, accentuando il peso di un film che sembra piombate dalle sue ambizioni.
E’ evidente che la quarantunenne berlinese Schilinski – figlia d’arte – abbia a cuore la questione femminile e cerchi di raccontarla attraverso il tempo e lo spazio, nelle sue declinazioni diverse e nei suoi continui aggiornamenti, lasciando sempre la morte sulla soglia, compagna continuamente presente, e masticando un film che non è estraneo alla grande storia, un po’ come avveniva ne l’Haneke del Nastro bianco o in certi lavori di Ozon. Il risultato è per ora velleitario, poco sorvegliato. Manca chiarezza e manca struttura.
Puro cinema da festival.
Irrisolto.

