Il film che chiude la derelitta fase cinque del Marvel Cinematic Universe, il trentaseiesimo della saga inaugurata da Iron Man, è diretto dal pressoché inedito Jake Schreier, al suo terzo film per il cinema, ma affermatosi con l’estenuante serie Netflix Beef – Lo scontro.
Il copione è firmato invece dal veterano Eric Pearson (Thor: Ragnarok, Godzilla vs. Kong, Black Widow e il prossimo I Fantastici 4), assieme a Joanna Calo (Hacks, The Bear, Beef), con riscritture di Lee Sung Jin (Beef) e si riconnette direttamente a diversi tra gli ultimi film della saga, in particolare Black Widow e l’orrendo Captain America: Brave New World uscito a febbraio.
Protagonista assoluta è la nuova Vedova Nera/Yelena Belova, che vive completamente estraniata dal suo ruolo, orfana della sorella acquisita Natasha Romanoff e lontana dal patrigno Alexsei/Red Guardian, riciclatosi come improbabile autista di limousine.
Yelena è al servizio della direttrice della CIA Valentina Allegra de Fontaine, che la utilizza per le sue attività illegali offshore. Quando tuttavia il Congresso mette sotto impeachment de Fontaine, quest’ultima decide di liquidare tutte le prove dei suoi crimini, compresi Yelena, l’ex successore di Steve Rogers come Captain America John Walker, Ava Starr/Ghost e il misterioso Bob, che si risveglia con gli altri in una sorta di cella impenetrabile sottoterra che sta per essere incenerita.
I quattro riescono miracolosamente a non ammazzarsi tra di loro e a fuggire mettendosi in salvo, grazie al sacrificio del bipolare Bob, l’ultimo degli esperimenti del siero che crea superpoteri. Gli altri tre si uniscono a Red Guardian e poi a Bucky Barnes/Soldato d’Inverno, ora deputato, che indaga sugli affari loschi della CIA.
A New York de Fontaine si installa nella torre degli Avengers lasciata da Tony Stark e cerca di sfruttare il potere sconfinato di Bob, che prende il nome di Sentry.
Rispetto agli ultimi deludentissimi episodi della saga Marvel, Thunderbolts* mette la sordina ad una certa ironia goffa e demenziale, per privilegiare una dimensione malinconica, con personaggi cupi, depressi, fuori posto, la cui vita sembra essere completamente deragliata.
I cinque sono molto classicamente un gruppo di antieroi, manipolati e usati dal Potere e dalla hybris della CIA, per perpetuare la sua presa antidemocratica su una società che sembra allo sbando e senza guida.
La dimensione eroica è sfuggente, messa continuamente in discussione dagli stessi superumani: qualcuno è costretto a riciclarsi come politico o si rifugia nel lavoro compulsivamente, qualcun altro ha perso la propria famiglia e i propri affetti, altri ancora passano il tempo a rivedere i filmati delle loro gesta del passato.
Nel frattempo il mondo vive un’impasse: gli Avengers non ci sono più, l’ultimo Presidente si è trasformato in una minaccia rossa e gigante per la Capitale e dallo spazio arrivano segnali contraddittori.
In questa atmosfera di incertezza e di lutto, qualcuno cerca di rafforzare il proprio ruolo, a scapito delle istituzioni.
Thunderbolts* vive come molti dei film della Fase 4 e 5 nella nostalgia degli eventi del passato, ormai mitizzati e celebrati , che continuano a risuonare nelle vite dei personaggi. Metacinematograficamente è un po’ quello che accade anche alla Marvel che sei anni dopo Endgame non ha mai più ritrovato il successo di allora e non sembra essere in grado di ripartire davvero se non cercando continui riferimenti alla passata grandezza.
Il tono è tuttavia questa volta piuttosto indovinato, mescolando ironia spicciola ad un certa gravità. Interessante poi che questo gruppo di losers siano visti come una sorta di travet dell’eroismo, impiegati fantozziani che non ce la faranno mai.
Inedito è invece il ruolo dei disturbi psicologici e della depressione all’interno di questo universo, che fonda sostanzialmente la svolta del terzo atto e prelude allo scioglimento e poi alla ricostituzione del gruppo, con un ruolo diverso. Anche i superumani hanno problemi ordinari e la sbruffoneria di Tony Stark e del divino Thor sono episodi molto lontani.
Il casting è purtroppo modesto: Harbour rifà sempre se stesso, sempre più sopra le righe, Stan ha il ruolo del bel tenebroso, ma non si capisce bene perché, Hannah John-Kamen e Wyatt Russell sono drammaticamente trascurabili e persino Julia Louis-Dreyfus ha un ruolo così stereotipato che non riesce mai ad emergere come villain, mentre la sua segretaria Geraldine Viswanathan sembra rubarle la scena ogni volta.
Meno male che Florence Pugh dona un po’ di forza drammatica alla sua Yelena, caricandosi il film sulle spalle e trascinandolo in porto a forza di primi piani, al netto della fiacchissima parte d’azione.
La dimensione politica è come al solito superficiale e confusa, buona per tutte le occasioni. Ma Schreier cerca almeno di raccontarci qualcosa sull’ambiguità di perseguire il bene con mezzi controversi, sui rischi del progresso scientifico al servizio di una tecnocrazia opaca, sulla solita retorica del successo e del fallimento, una vera ossessione americana.
Restano anche una certa empatia istintiva con il gruppo degli sfortunati protagonisti e l’inquietudine che li attraversa.
Scena post-crediti da non mancare, che lega Thunderbolts* all’inizio della prossima Fase 6.

