Dreams

Dreams ***1/2

Dreams è il terzo capitolo di una trilogia sentimentale diretta dallo scrittore e regista norvegese Dag Johan Haugerud, cominciata con Sex alla Berlinale del 2024 e proseguita con Love alla Mostra di Venezia a settembre.

Il nuovo lavoro è un piccolo capolavoro di sensibilità e coraggio che ha appena  conquistato l’Orso d’Oro, assegnatogli dalla giuria di Todd Haynes, chiudendo simbolicamente un cerchio cominciato esattamente un anno fa.

Grazie a Wanted tutti e tre i film stanno per uscire nelle sale, in modo che anche il pubblico italiano possa farsi un’idea più precisa su quella che è diventata rapidamente una voce limpida e forte nel panorama del cinema europeo.

Dreams racconta la nascita di un romanzo: è l’esordio della diciassettenne Johanne, studentessa di liceo e nipote di una poetessa, che affida alle pagine di una sorta di diario intimo il turbamento per la fine di una relazione impossibile, più sognata e idealizzata che realmente vissuta, con la sua professoressa di lettere e francese, Johanna.

L’ispirazione le viene leggendo L’ésprit de famille di Janine Boissard trovato casualmente nella baita dove spesso passa i fine settimana con la madre.

Guidati dalla voce della protagonista che ci accompagna attraverso i desideri e le paure che dettano i tempi del suo impetuoso innamoramento e del suo tentativo di avvicinarsi progressivamente alla giovane professoressa, per tutta la prima parte siamo testimoni della follia d’amore di Johanne che per nove pomeriggi attraversa la città sino alla parte più moderna e dei grandi uffici per presentarsi a casa di Johanna, con la scusa di prendere lezioni di maglia dalla professoressa che ha studiato moda alle Belle Arti e ha un piccolo telaio in un appartamento che sembra caldo e luminoso atelier.

Quello che noi vediamo è mediato dalle pagine della storia che la giovane scriverà un anno dopo, quando tutto è ormai finito, Johanna si è trasferita e i loro rapporti completamente interrotti.

Incapace di condividere i suoi sentimenti con la amiche, Johanne li affida alle pagine di un romanzo, che alla fine decide di far leggere alla nonna, celebre poetessa, che sembra apprezzare la dimensione letteraria molto più di quella personale, forse scandalosa, del rapporto tra una studentessa e la sua insegnante.

Il manoscritto finisce nelle mani della madre di Johanne, che ne è prima profondamente turbata, deve rileggerlo due volte, prima di affrontare la figlia.

Il film di Haugerud si muove leggero e malinconico come un notturno di Chopin, abbraccia sentimenti travolgenti, capaci di scatenare tempeste e confronti, ma lo fa sempre con una serenità e una maturità di sguardo che lascia senza parole.

La madre e la nonna di Johanne si interrogano sui confini di quello che hanno letto, sulla distanza che forse intercorre tra realtà e rappresentazione, sulla legittimità dei sentimenti della protagonista, sui possibili abusi commessi dalla professoressa, sulle responsabilità della scuola, ma poi scelgono di prestare ascolto all’autenticità dei sentimenti e ad un racconto in cui Johanne non è mai vittima delle circostanze.

Evitando di schiacciare la ragazza in un ruolo socialmente prestabilito, ne riconoscono la voce, ne apprezzano il talento, fino a sottoporre il manoscritto ad un editore per la possibile pubblicazione.

Questo tuttavia richiede un nuovo incontro con la professoressa e qui Haugerud ci regala una delle scene più intense e ambigue della stagione.

Johanna accetta di vedere solo la madre della sua studentessa, in un caffé. Qui prima si accerta che la donna non voglia denunciarla alle autorità, poi nega decisamente di aver mai condiviso i sentimenti di Johanne verso di lei, nè di aver compreso quelli della sua alunna, arrivando sino al punto di ribaltare la prospettiva iniziale e dichiarando di essere stata usata dalla protagonista, mettendosi paradossalmente in quel ruolo di vittima, che fino a quel punto il film aveva accuratamente evitato di attribuire.

L’intelligenza delle riflessioni di Haugerud è encomiabile, il modo con cui racconta l’accendersi della passione è travolgente, sia pure sempre mediato da una dimensione narrativa interna al racconto che non mette mai la sordina ai sentimenti, ma cerca di razionalizzarne la dimensione emotiva.

Il nostro è un viaggio inconsapevole in quelle 95 pagine scritte da Johanne.

Come ci racconta la protagonista: “So che non la dimenticherò mai, ma, sapete, le memorie cambiano. Ho pensato che se avessi trovato le esatte parole per descrivere come era esattamente, avrei potuto catturarne l’essenza, renderla solida, qualcosa che posso portare nel palmo della mano, per sempre”.

Dopo l’incipit travolgente, il film diventa un minuetto di dialoghi tra i personaggi del film, in cui ciascuno è costretto a fare i conti con se stesso, con i propri desideri, con le contraddizioni dell’esistenza.

Il finale è affidato ad altre parole, quelle forse inutili di uno psicologo e quelle invece nuove di un incontro che sembra aprire alla protagonista nuovi universi sentimentali, da attraversare con una maturità e una consapevolezza diverse.

Dag Johan Haugerud costruisce un piccolo film parlato, capace di spalancare profondità abissali, interrogando continuamente il suo pubblico e mettendolo a nudo nelle proprie convinzioni e nei propri pregiudizi.

Come ha scritto Alessandro Uccelli su Cineforum “Questo moltiplicarsi e accavallarsi di narrazioni e rispecchiamenti ha forse un correlativo visivo nelle tante scale salite e discese da Johanne, che culmina nella visione quasi allucinata delle rampe e dei ballatoi del complesso in cui abita la professoressa, una sorta di labirinto in stile Escher, tutto luci, gradini e ringhiere, nel cuore della city di Oslo”. [1]

Forse nel finale il film si sfilaccia un po’ con un inutile sogno simbolico e con troppe chiusure, che forse avrebbero potuto essere tagliate. Ma sono vizi minori di un lavoro maiuscolo e inatteso.

Il film è tutto interamente femminile, le presenze maschili sono solo di passaggio, eppure non se ne sente mai la mancanza, grazie al quartetto di straordinarie interpreti Ella Øverbye, Selome Emnetu, Ane Dahl Torp e Anne Marit Jacobsen e ad una regia capace di lasciarci costantemente di mescolare i piani di realtà con quelli del sogno, mediandoli con le parole del romanzo, in un cortocircuito fecondo e di rara sensibilità.

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[1] Alessandro Uccelli, Dreams, (Drømmer) di Dag Johan Haugerud, Cineforum

 

 

 

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