L’ultimo film di Robert Zemeckis nasce da una striscia di appena sei pagine, scritta nel 1989 da Richard McGuire e poi trasformata in una graphic novel nel 2014, con un’idea formidabile nascosta tra le sue pagine.
Il protagonista della storia non è un personaggio, ma un luogo specifico, un pezzo di terreno della Proprietary House in Perth Amboy New Jersey, con un unico punto di vista attraverso il tempo e la storia, dai dinosauri al 2024, passando attraverso la tribù dei nativi Lenni-Lenape, i possedimenti del governatore William Franklin a fine Settecento, la costruzione di una villetta nei primi anni del secolo scorso e la vita dei suoi proprietari.
Zemeckis usa l’idea di McGuire per farne un’altra sfida alla messa in scena, ai limiti della rappresentazione, piena del suo spirito pionieristico e dei suoi valori tradizionali.
Se l’inquadratura infatti è apparentemente fissa, attraverso i secoli e i millenni, mostrando sempre lo stesso angolo di cielo, prima immerso nella natura poi contenuto dal soggiorno e dalle vetrate di una casa, il racconto si frantuma, grazie ad un montaggio particolarmente creativo, in un caleidoscopio di frammenti minimi, che non seguono nessun ordine temporale, ma il si legano tra di loro grazie al filo delle emozioni e a una logica di pura attrazione.
Molto spesso nell’inquadratura di aprono finestre visive, riquadri, singoli o multipli, che ci portano in altri momenti della storia, in un continuo turbine visivo, che si concentra, come è evidente, sull’ultimo secolo.
I primi proprietari della villetta sono John Harter, un uomo ossessionato dall’aviazione, e la moglie Pauline. Alla morte del capo famiglia per la febbre spagnola, la casa viene venduta ad un inventore, Leo e ad una pin up, Stella, che ci vivono negli anni ’40, prima che la realizzazione di una sedia reclinabile li spingerà verso la Califonia.
Subito dopo la Guerra sono gli Young ad abitare quello spazio, prima il salesman Al con la moglie Rose, poi il figlio maggiore Richard, che deve rinunciare alle sue velleità artistiche, dopo aver messo incinta a diciotto anni la studentessa Margaret.
I due vivono una vita di sacrifici e di rinunce personali, per consentire alla figlia Vanessa di andare al college e poi alla scuola di legge. Nei primi anni duemila Richard e la moglie si separano, lasciando l’immobile ad una coppia afroamericana, Devon e Helen. Quando il covid si porta via la loro domestica, Raquel, la casa torna di nuovo sul mercato, vuota com’era all’inizio…
Il racconto dell’intreccio per sommi capi non rende giustizia al lavoro sopraffino di Zemeckis: all’inizio lasciano a bocca aperta l’audacia e la fantasia nell’intrecciare momenti così lontani, ma poi l’artificio tecnico passa presto in secondo piano, come accade sempre quando il patto spettatoriale funziona, ed emerge una dimensione di malinconica emotività, grazie anche al peso che hanno gli attori protagonisti.
Tom Hanks e Robin Wright di nuovo assieme come in Forrest Gump e di nuovo lontani per ambizione, carattere e sogni.
Utilizzando la tecnologia per farli apparire di nuovo ragazzini e poi piano piano accompagnandoli in sessant’anni di vita, Zemeckis li mette al centro della sua storia, eliminando persino le parti della graphic novel originale che si spingevano nel futuro e lasciando a Richard e Margaret la conclusione.
C’è in particolare una scena che mi pare decisiva, quando Margaret si avvicina alla macchina da presa e il suo primo piano invecchia a poco a poco, a segnare il tempo trascorso in quella casa.

Sono solo pochi secondi, ma raccontano la delusione non rassegnata della protagonista con grande eleganza ed efficacia.
Here è un film di momenti perduti, di successi e rimpianti, di malizie e gioie provate e fallimenti vissuti dolorosamente.
Da sempre ossessionato dal tempo, quello perduto e quello passato, il tempo del futuro e le sue infinite derive e possibilità, Zemeckis trova in Here materia viva per alimentare ancora il suo viaggio struggente nella vita e nella morte, cercando di penetrare il mistero insondabile di un’avventura straordinaria eppure spesso minima.
L’apparente freddezza del montaggio continuamente disarticolato, contribuisce invece a regolare la temperatura emotiva del film, in cui matrimoni e funerali, malattie, morti e nascite si avvicendano continuamente, in uno spazio che sembra racchiudere tutti i sentimenti possibili.
La Storia rimane quasi sempre muta: la stessa televisione ci rimanda i Beatles all’Ed Sullivan Show e le lezioni di aerobica degli anni ’80, ma non i grandi avvenimenti dell’ultimo secolo. La dimensione personale del racconto è predominante e quello che conta sono i riflessi sui personaggi, dalla glaciazione che estingue i dinosauri a George Washington, dagli screzi tra William Franklin col padre Benjamin, uno dei padri fondatori della nazione, alla leva volontaria per il Vietnam.
Sono solo momenti isolati che richiamano spesso il lavoro dello stesso Zemeckis, in un rimando che aggiunge senso alla storia.
Non tutto naturalmente funziona come dovrebbe: certe volte il grandangolo a camera fissa assomiglia a quello di una sit-com, l’uso dell’AI sui volti e i corpi degli attori fa alzare più di qualche sopracciglio e non tutti i personaggi trovano il giusto approfondimento in un film che rimane spesso inevitabilmente in superficie. Inoltre il sentimentalismo di Zemeckis e il suo spirito conservatore restano una zavorra, che la musica di Alan Silvestri sembra voler accentuare inutilmente.
Ma nel complesso mi pare che Here sia un piccolo film in cui le due anime del suo cinema convivono in modo fecondo e il suo inesauribile sperimentalismo sembra trovare finalmente terreno fertile su cui esercitarsi, senza schiacciare la dimensione narrativa, che Eric Roth ha curato per lui. L’equilibrio miracoloso assomiglia a quello che il suo Philippe Petit ha sempre cercato nelle sue performance da funambolo.
Intimamente americano, con i suoi Thanksgiving e il suo immutabile focolare, il film si avvicina anche a Storia di un fantasma di David Lowery nell’idea che le case siano contenitori di memoria e di storie stratificate nel tempo e che la stessa evoluzione demografica e urbanistica modifichi profondamente i luoghi, lasciandoli solo apparentemente identici a se stessi.
In Italia con Eagle da gennaio 2025.

