Longlegs

Longlegs **

Dopo il notevole adattamento di Gretel e Hansel, il nuovo horror firmato da Oz Perkins ha avuto un successo inatteso nell’estate americana, non solo per il coinvolgimento di un irriconoscibile Nicolas Cage, ma soprattutto per l’atmosfera perturbante e minacciosa che avvolge Longlegs sin dal prologo.

In un tempo e in uno spazio indefinibili, poi identificati nell’Oregon degli anni ’70, una bambina sente arrivare nel giardino di casa un’auto familiare. Esce con una polaroid per capire di chi si tratti e si imbatte in un uomo eccentrico vestito di bianco, di cui vediamo solo le labbra ed il tronco, che le fa gli auguri per il suo imminente compleanno e le dice: “Sembra che abbia indossato le mie longlegs oggi”. Stacco e titoli di testa, mentre il formato riquadrato si allarga fino ad abbracciare nuove porzioni di schermo.

Durante una caccia all’uomo dell’ FBI nei primi anni ’90 la giovane recluta Lee Harker dimostra di avere un intuito sovrannaturale, vicino alla chiaroveggenza. Il suo capo, l’agente Carter, le affida un cold case, che da oltre un decennio il Bureau non riesce a risolvere: una serie di omicidi-suicidi in contesti familiari, avvenuti in tutta la regione, apparentemente inspiegabili e non collegati, se non per una lettera con caratteri incomprensibili di ispirazione satanica, puntualmente ritrovata sulla scena del crimine e firmata “Longlegs”.

La sera stessa qualcuno lascia una nuova lettera del killer a casa di Lee, con un messaggio di morte per sua madre.

L’agente riesce rapidamente a risolvere l’algoritmo che lega tutti i casi: ogni famiglia aveva almeno una figlia di nove anni nata il giorno 14 del mese e gli omicidi sono avvenuti tutti entro un termine di sei giorni, prima o dopo il compleanno. Se segnate su un calendario lineare, le date degli omicidi formano il simbolo occulto di un triangolo rovesciato, con una data mancante per completare la forma.

Ritornando su alcune delle scene del crimine, Lee e il suo supervisore Carter dissotterrano una strana bambola sepolta sotto il pavimento e all’interno della testa trovano una sfera di metallo che emette letture ad alta energia nonostante sia apparentemente vuota.

Secondo Lee potrebbe essere quella sfera a influenzare con un’energia malvagia le famiglie. Ma Carter inizia a sospettare che la giovane agente non gli abbia detto tutto su Longlegs…

Il film di Perkins è pervaso da un’atmosfera di terrore sotterraneo e inquietante, sin dal prologo. Chi è questo misterioso Longlegs che sembra vestirsi come un cantante di una band di glam rock? Chi lo aiuta a influenzare le famiglie che distrugge meticolosamente senza mai sporcarsi col sangue i suoi vestiti candidi? E che ruolo ha in tutto questo l’agente Lee?

Attraversato da un costante senso di opprimente minaccia, che l’angoscia di Lee finisce per accentuare ad ogni nuova scoperta, il film di Perkins sembra ispirarsi a certe atmosfere e a certi personaggi del capolavoro di Demme Il silenzio degli innocenti, uscito nelle sale proprio negli anni in cui è ambientato Longlegs. L’idea della recluta dall’intuito eccezionale, ma dal passato oscuro, quella del doppio mentore, non solo all’interno dell’FBI, ma nel mondo criminale, il ricorrere del basement come spazio interdetto, in cui esercitare le proprie eccentriche abilità artigianali, l’identità sessuale ambigua del killer: sono tutti elementi che ritroviamo anche qui.

Solo che Perkins abbandona la logica cartesiana della messa in scena di Demme e vi aggiunge una dimensione sovrannaturale, che trasporta il racconto verso le profondità dell’ignoto, della parapsicologia e dentro recessi ancestrali e simbolici, che lasciano più increduli che turbati. E’ parte del fascino irrisolto del film e anche il suo limite, perché la detection ad un certo punto lascia il campo agli incubi sul misterioso “uomo di sotto“.

Perkins è furbo nel costruire un racconto veloce, secco, reticente, affidandosi alle ellissi, ai non detti, suggerendo e mostrando poco, preferendo lasciare in sospeso domande e interrogativi troppo espliciti. Un tale concentrato di assurdità raccontate in modo così serioso e grave, sfiora spesso il ridicolo involontario: allo spettatore resta la scelta di fidarsi ciecamente del racconto o distanziarsene.

Il successo del film è tutto in un orrore evocato e assai poco mostrato. Lo stesso trucco di Nicolas Cage, che lo rende sostanzialmente irriconoscibile, se non fosse per la voce inconfondibile, viene centellinato nel corso del film fin dall’incipit e poi con campi lunghi che lasciano il suo volto celato nel mistero sino all’interrogatorio nella stanza dell’FBI, che si chiude peraltro con la progressiva violenta sfigurazione del suo personaggio.

Rimane il dubbio che in questo Longlegs ci sia più mestiere che ispirazione, che Perkins – figlio del celeberrimo protagonista di Psycho – conosca così profondamente il genere da aver costruito un meccanismo drammatico perfettamente funzionante, ma in fondo un po’ sterile, tutto di superficie. Un meccanismo capace di evocare paure e incubi, che svaniscono rapidamente.

Qualche dubbio lo lascia anche Maika Monroe, già final girl in It Follows, che sembra attraversare il film in stato catatonico, fra traumi rimossi e nuovi orrori. Tuttavia dovrebbe evitare di appiattirsi in ruoli troppo simili, perché alla lunga il pubblico saprà subito, non appena compare sullo schermo, che tipo di personaggio e di film sta per vedere.

Suggestivo.

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