Sono passati sei giorni dagli eventi tragici descritti nel primo Smile: il detective Joel – ultimo testimone della maledizione che ha contagiato come un parassita la dottoressa Rose Cotter, sino a spingerla all’annientamento – si aggira nei sobborghi innevati di una piccola città con l’obiettivo di trasmettere la condanna a due trafficanti di droga. Il suo piano fallisce miseramente, Joel è costretto alla fuga e viene travolto da un fuoristrada, mentre l’entità misteriosa passa ad un giovane e inconsapevole spacciatore di New York, Luis Fregoli.
La scia di sangue che si forma sulla strada assomiglia al ghigno malefico che tutti i contagiati vedono nel volto degli altri, prima di morire.
Smile 2 ricomincia esattamente dove terminava il primo episodio, tuttavia Parker Finn, che l’aveva scritto e diretto come un’espansione dell’universo creato nel proprio corto Laura Hasn’t Slept, cambia radicalmente la prospettiva originale e, pur realizzando un sequel che ripercorre pedissequamente la stessa struttura narrativa e gli stessi stati di alterazione progressiva di cui già eravamo stati testimoni, racconta qualcosa di autenticamente nuovo.
Se il primo Smile infatti mostrava in filigrana come il trauma e la colpa fossero una sorta di maledizione inestinguibile, capace di divorare dall’interno ogni spazio vitale e ogni possibilità di sopravvivenza, ecco che questo secondo episodio fa i conti con le fragilità del successo, con il microcosmo surreale della celebrità in cui venerazione, minaccia, maschere e ipocrisia sono parte di un meccanismo esso stesso infernale.
La misteriosa entità ancestrale che possiede le sue vittime una alla volta, in una sorta di infinita catena di morte, penetrando nella loro psiche, nei loro sensi di colpa, nelle loro illusioni sino a spingerle al suicidio, passa così da Luis Fregoli ad una sua ex compagna di scuola, la popstar Skye Riley, che ha bisogno del vicodin spacciato dall’amico, per sopportare i dolori alla schiena.
Un anno prima lei e il fidanzato attore Paul erano stati coinvolti in un terribile incidente d’auto al culmine di una serata fuori controllo di alcol e droga: le cicatrici e il dolore sono per Skye la testimonianza di un passato da lasciarsi alle spalle. I preparativi stressanti per il suo nuovo tour mondiale, le pressioni della casa discografica e della madre manager, l’affetto soffocante dei fans, la rottura con la sua migliore amica e il ricordo di Paul diventano tuttavia terreno fertile per gli incubi in cui precipita la mente di Skye.
Finn ricostruisce così il suo Smile nell’universo fasullo dei social e in quello altrettanto illusorio del rapporto tra artista e pubblico, sempre meno oggetto di intermediazione e sempre più ansioso di un contatto autentico.
Verosimilmente il personaggio di Skye Riley, interpretata con una notevole aderenza al ruolo da Naomi Scott (Charlie’s Angels), è modellato sulla popolarità “paurosa” di fenomeni pop come Taylor Swift, ma è significativo che il film esca a pochi giorni dalla morte ancora non chiarita di Liam Payne degli One Direction.
Il ruolo delle dipendenze e la cultura americana della sobrietà, la fragilità psicologica di chi è costretto a vivere costantemente in vetrina fin da adolescente, il cambiamento dei ruoli familiari e delle amicizie, l’autolesionismo e la depressione come risposte inevitabili a standard di successo e professionalità inarrivabili: sono tutti temi che Finn cerca di attraversare, sfruttando pienamente le possibilità concesse dal genere principe del cinema americano di questo nuovo secolo.
Come accadeva anche nel primo capitolo la regia elegante, inventiva e tutt’altro che timida di Finn è capace di sfruttare appieno l’armamentario dei trucchi horror, dalla confusione dei piani di realtà all’oscurità degli interni, dalla minaccia del fuori campo al make-up sanguinoso e agli effetti. Tuttavia al regista sembra ormai andare un po’ stretto il meccanismo di genere: il suo interesse è certamente altro, più centrato in una dimensione perturbante del racconto della contemporaneità e nel sinistro ruolo testimoniale che i meccanismi di ripresa – e il cinema stesso – finiscono per avere rispetto al dolore e alla morte.
I numeri musicali appaiono particolarmente riusciti e inquietanti, tra citazioni anni ’80 (le magliette dei Talking Heads e di MTV ’86, l’incubo dei ballerini che sembra evocare il Thriller girato da John Landis) e improvvisi ritorni al tempo presente.
Anche questa volta la parte finale gioca con lo spettatore confondendo realtà e incubo in modo un po’ disonesto ed esagerando con effetti e effettacci, tuttavia Finn limita molto questa deriva e trova un colpo di scena finale di grande intelligenza, che trasforma la maledizione originale in una sorta virus incontrollabile, che preannuncia nuovi capitoli che rilancino riflessioni ancora diverse.
Da non perdere.

