Cowboy Cartel: denaro pulito, ma affari sporchi tra scommesse sui cavalli e traffico di droga

Cowboy Cartel **1/2

Cowboy Cartel si inserisce in un ampio e consolidato filone di documentari che raccontano le indagini di agenti dell’FBI o della DEA nella lotta al narcotraffico. La particolarità del racconto, incentrato sulla figura del giovane federale Scott Lawson, è quella di descrivere come il potente cartello messicano degli Zeta utilizzi le corse di quater horse, i cavalli americani dei film western per intenderci, al fine di riciclare parte del denaro guadagnato con attività illecite.

Il racconto parte nel 2009, quando inizia a farsi notare un nuovo proprietario di cavalli vincenti: José Trevino Morales. Non sono tanto le vittorie della sua scuderia a catturare l’attenzione degli investigatori, quanto il fatto che i suoi cavalli vengano acquistati ad un prezzo molto basso; anche quelli di grande valore, come Mr. Piloto, vincitore della più prestigiosa corsa del settore, l’All American Futurity a Ruidoso, un paese del Nuovo Messico nei pressi della Sierra Bianca. I sospetti crescono con la scoperta della parentela di Trevino con i capi del cartello  di Los Zetas: Miguel, “Zeta 40” e Omar, “Zeta 42”. Sono loro l’obiettivo principale di Lawson che è peraltro ben consapevole di quanto sia arduo incastrare questi boss. La scelta di puntare sul riciclaggio di denaro, inizialmente contrastata, si rivela ben presto come l’unica strada concreta. Serve quindi una vera e propria task force tra agenti dell’FBI, esperti di droga e di frode fiscale, come l’istrionico agente speciale Steve Pennington.

Inizialmente il ritmo è un po’ compassato, soprattutto nel primo episodio: Lawson è indubbiamente più efficace come investigatore che come narratore. La scelta di puntare su di lui mette al riparo da facili cadute nella retorica, ma limita l’emotività della narrazione. Con la comparsa della task force intersettoriale nel secondo episodio e  il coinvolgimento di altre figure, come la reporter del NYT Ginger Thompson che indaga in parallelo sulla vicenda, il ritmo però si alza. Il racconto scorre quindi senza intoppi, ma anche senza veri e propri colpi di scena: nel primo episodio troviamo già tutto quello che viene poi dimostrato con il prosieguo delle indagini. L’oggetto della narrazione è piuttosto la complessità delle indagini, viste sempre dal punto di vista delle forze dell’ordine americane. Se infatti la molteplicità di voci degli investigatori dà più ritmo alla narrazione, rimane una mancanza sostanziale: non si sente la versione dei cattivi, dei bad guys. Una scelta etica che dal punto di vista meramente narrativo appare piuttosto come un limite perché, senza un controcanto, la voce di Lawson appare ancora più monotona.

Il racconto si sviluppa lungo quattro episodi della durata di circa 50 minuti l’uno per descrivere come il cartello dei Los Zetas ripulisca i soldi della droga tramite l’allevamento di cavalli. Quanti, come il sottoscritto del resto, non sono del settore forse si meraviglieranno nel constatare con che facilità un buon cavallo possa raggiungere un prezzo d’acquisto di 800.000 – 1.000.000 di dollari. La rivalità che spesso porta alla mancanza di collaborazione tra le forze di polizia specializzate, la difficoltà a raccogliere prove tangibili e inequivocabili, la violenza dilagante al confine di Stato accompagnano e fanno da sfondo alle indagini condotte da una task force con competenze e specializzazioni  molto articolate. Lo spettatore segue con crescente simpatia i protagonisti della vicenda a cui non mancano tratti di schietta umanità, come nel ricordo commosso che Lawson fa della scomparsa del padre, sua guida e modello anche per il lavoro in polizia o negli inviti più o meno velati che Pennington fa alla famiglia a comprarsi delle pistole e a imparare ad utilizzarle per difesa personale. L’indagine mette a dura prova tutti, specie nei giorni immediatamente precedenti l’inizio del processo: la pressione che circonda i protagonisti è trasmessa in modo molto efficace, ma indubbiamente non ha la stessa carica drammatica di eventi come rapimenti, inseguimenti, attentati o altre azioni criminali. Dopo gli arresti, non resta quindi che seguire  il processo e la prevedibile condanna dei criminali.

A livello tecnico siamo di fronte ad un prodotto confezionato con cura. Il montaggio delle interviste alternate a immagini di repertorio e panoramiche realizzate con l’utilizzo di droni appare puntuale e ben strutturato, senza sbavature retoriche e con la ferma intenzione di non dare spazio alcuno alla fascinazione per i cattivi. L’utilizzo di rallenty, inquadrature parziali e di una fotografia desaturata conferisce valore estetico alla narrazione, specie dove compaiono i cavalli.

Nel complesso quindi una docuserie che affascina per la descrizione dell’attività investigativa delle forze di polizia, per la pervasività della corruzione e del potere dei cartelli della droga e per la particolarità del mondo delle scommesse dei cavalli, ma che non riesce a presentare tratti innovativi rispetto alle altre produzioni di questo tipo.

Sono solo dei ronzini, ma i migliori cavalli su Apple TV li  aspettiamo proprio in questi giorni, con la quarta stagione di Slow Horses.

TITOLO ORIGINALE: Cowboy Cartel

DURATA MEDIA DEGLI EPISODI: 50 minuti

NUMERO DEGLI EPISODI:  4

DISTRIBUZIONE STREAMING: Apple TV+

GENERE: Documentary

CONSIGLIATO: a quanti amano racconti che presentano il punto di vista dei buoni, senza indulgere in ambigue (e in genere accattivanti) presentazioni dei cattivi e del loro mondo.

SCONSIGLIATO: a quanti cercano un racconto con emozioni e adrenalina: la componente action non è certo preponderante e il ritmo del racconto è incalzante solo a tratti.

VISIONI PARALLELE: la docuserie Amazon Prime The Last Narc ovvero la storia di Enrique “Kiki” Camarena, agente della DEA rapito, torturato e ucciso dai Narcos Messicani. Una storia dall’esito molto diverso rispetto a quella raccontata nella serie Apple, a dimostrazione dei rischi corsi dagli investigatori coinvolti nell’indagine.

Un’immagine: il confine tra i due Stati, Messico e USA, di fatto un unico territorio. Il Puente International torna a più riprese, di giorno e di notte, con file di automobili in coda per passare la dogana  che divide Nuevo Laredo da Laredo, il Mexico dagli USA. Quest’immagine rappresenta al meglio il concetto che non si può pensare che il traffico di droga e la violenza dei cartelli messicani non abbiano un impatto negativo anche sulla vita dei cittadini americani.

 

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