La chiusura del concorso di Venezia 81 compete alla seconda parte della trilogia dedicata alla sessualità e al desiderio del regista e scrittore norvegese Dag Johan Haugerud: il primo capitolo, Sex, ha debuttato a febbraio 2024 nella sezione Panorama del Festival di Berlino, il terzo Dreams vincerà l’Orso d’Oro esattamente un anno dopo.
La promozione di questo secondo capitolo nel concorso della Mostra ci era apparsa un po’ forzata, senza aver chiaro completamente il contesto del lavoro di Haugerud, regista del tutto inedito per il nostro Paese. Riletto alla luce della visione complessiva dei tre capitoli, anche Love, che resta il più debole dei tre, assume tuttavia un peso differente.
Come Dreams è immerso in una fotografia d’interni con dominanti molto calde che contrastano con l’idea della luce chiara e fredda del nord ed è interpretato da una protagonista francamente fastidiosa come Andrea Hovig, una sorta di Amélie in sedicesimo, nei panni di Marianne, un’urologa quarantenne che si occupa di pazienti operati di prostata: Love è un film diviso in due e non particolarmente coerente dal punto di vista narrativo.
Nella prima parte, si concentra appunto su Marianne e le sue improbabili avventure sentimentali/sessuali.
L’amica Heidi, che lavora in comune, vorrebbe presentarle il geologo Tor, che però ha due figli ed è separato dalla moglie che vive in una casa vicinissima alla sua, sull’isola di Nosodden. Seguendo invece il consiglio del suo infermiere omosessuale, sul traghetto che la riporta a Oslo, Marianne conosce un uomo con Tinder e fa l’amore con lui nel porto, suscitando nell’amica un certo disappunto.
Parallelamente il film sembra spostare progressivamente il suo baricentro verso la figura dell’infermiere, che assiste e si prende cura di un paziente omosessuale conosciuto sullo stesso traghetto e operato alla prostata nel suo reparto. Marianne gli racconta i suoi dubbi e i rischi di mescolare pericolosamente la dimensione lavorativa e quella personale, ma all’infermiere non sembra importare molto.
Meno a fuoco e provocatorio di Dreams, meno essenziale di Sex, Dag Johan Haugerud vorrebbe forse suggerire in questo Love che l’amore non è solo sessualità ma soprattutto cura, assistenza, affetto e che l’amore è assai più necessario quando più ne abbiamo bisogno: per chi ha amato la complessità e l’anticonformismo radicale del film successivo, il messaggio di questo Love sembra un po’ la scoperta dell’acqua calda, in verità.
La dimensione della malattia, le sue conseguenze sulla sessualità e sul piacere sarebbero anche interessanti, ma rimangono confinate in una parentesi. Ed è un peccato che il film insegua inutilmente le avventure banali di Marianne, quando è invece il suo collega infermiere a dare senso e corpo al film, schiacciato tuttavia in un ruolo marginale.
Il film si prolunga per due ore riempito delle chiacchiere da poco, che coinvolgono Marianne, lasciando invece troppo in secondo piano ciò che sembra importare di più a Haugerud.
Love è ordinario dal punto di vista formale, è sconclusionato nella sua costruzione drammatica e narrativa ed è pieno di sé in modo francamente risibile, mentre ci spiattella banalità sulle relazioni sentimentali.
Emerge invece anche in questo film, in modo prepotente, la capacità di Haugerud di utilizzare lo spazio della città – Oslo – in modo mirabile, viaggiando in verticale e in orizzontale, spostandosi sui traghetti e verso i tetti, sulle isole o la collina, restituendo tutta la complessità del paesaggio urbano, all’interno del quale i suoi personaggi si muovo costruendo senso alle loro esistenze e cercando luoghi in cui ricominciare a dialogare davvero, lontani dalla bolla social e dal distanziamento obbligato.
Il lavoro di Haugerud sugli spazi urbani è degno di Woody Allen, eppure qui non c’è alcuna mitizzazione nostalgica, nessuna esagerazione estetizzante, ma una capacità di compenetrare la realtà con un sguardo acutissimo.
Complessivamente mi pare che Love resti l’anello debole di una trilogia invece capace di raccontare una geografia di sentimenti e relazioni in modo maturo e pienamente contemporaneo.

