Venezia 2024. April

April **

Il secondo film della georgiana Dea Kulumbegashvili è un altro racconto morale in un Paese che sembra immerso in un passato indefinito di ignoranza, violenza e corruzione.

Il film si apre con un parto mostrato senza pudori, che ha esiti infausti: il piccolo muore e i genitori minacciano di far causa all’ospedale. Il primario affida al collega David un’inchiesta sulla ginecologa Nina, per accertare le cause del decesso e le concrete possibilità di salvare il piccolo prematuro.

David e Nina sono stati amanti molti anni prima, ma ora la donna sembra incapace di costruire una qualsiasi forma di relazione, abbandonandosi al sesso occasionale, senza alcun coinvolgimento.

Su di lei pesano le voci che pratichi aborti clandestini nel piccolo Paese da cui proviene.

In effetti una donna le chiede di far abortire la figlia sordomuta, che verosimilmente è stata vittima di una violenza. Nina fornisce pillole anticoncezionali ad una ragazzina musulmana di 15 anni, che è forse troppo giovane per aver già dei figli.

La sua attività è immersa nel silenzio e nell’omertà, ma quando la ragazzina disabile viene trovata morta, l’autopsia rivela il suo intervento.

Il racconto è inframmezzato da apparizioni sovrannaturali e da una dimensione animistica che sembra fondere le vicende particolari della protagonista con lo spirito dell’universo.

Dopo il secco e suggestivo Beginning, premiato a San Sebastian da Luca Guadagnino che qui riveste il ruolo del produttore, April è il racconto di un mese particolarmente difficile nella vita di Nina.

Anche in questo caso al centro del racconto ci sono una serie di interrogativi morali, che investono la professione della protagonista, ma anche la sua vita privata e quella delle donne che vengono in contatto con lei quotidianamente.

Ha davvero sbagliato a non praticare un cesareo? Come riuscirà ad evitare di essere licenziata, dopo che la sua attività clandestina è stata esposta? Il film lascia le domande senza risposta precisa. Verosimilmente il primario finirà per aggiustare ogni cosa, salvaguardando il ruolo della sua collega, ma è una scorciatoia di comodo, che vanifica gli interrogativi posti.

Quello che resta è invece un altro affresco di un Paese perso in una dimensione ancestrale, pre-moderna, in cui la meraviglia di un alba dopo la tempesta o un campo di papaveri in pieno sole sono le uniche cose che si possono davvero ammirare. Quando lo sguardo invece si posa sugli uomini e le donne, prevale un sentimento di miseria e compassione.

Il film è oscuro, terribilmente ambizioso, non sempre chiaro e quando esce dalla dimensione di crudo realismo sembra perdersi.

La fotografia sensazionale in 1,33:1 è del bielorusso Arsenij Chačaturan che Guadagnino aveva voluto con sè per Bones and All.

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