A clown with his pants falling down
Or the dance that’s a dream of romance
Or the scene where the villain is mean
That’s entertainment!
Arthur Fleck è ad Arkham, in attesa del processo per i cinque omicidi commessi, l’ultimo dei quali in diretta televisiva.
Il procuratore Harvey Dent ha annunciato che chiederà la pena capitale, mentre l’avvocato di Fleck/Joker sta cercando di dimostrare che l’uomo soffre di un disturbo di personalità dissociativo.
Nel frattempo, grazie alla sua buona condotta, ad Arthur viene concesso di partecipare ai corsi di musica che si svolgono in un’ala diversa della struttura. Qui conosce Lee, che dice di essere una sua grande fans, di venire dal suo stesso quartiere e di essere stata internata per aver mandato in fumo la palazzina dei suoi genitori.
Tra realtà e immaginazione i due cercano prima la fuga da Arkham, poi si vedono quotidianamente al processo. Lee infatti si è fatta ricoverare volontariamente, abita nei quartieri della ricca borghesia di Gotham ed è laureata in psichiatria: ma non è innamorata di Arthur, bensì del Joker, che immagina possa mettersi a capo della rivolta che monta nelle strade di tutto il Paese.
Il secondo capitolo di questo formidabile affresco metropolitano, tra echi del cinema classico e personaggi dell’universo DC comics è un musical, che comincia con un inserto d’animazione in stile Looney Toons e poi continua come in un film di Demy, citato proprio all’inizio con un plongé sugli ombrelli colorati: passa così da un numero musicale all’altro con i personaggi che si parlano quasi sempre attraverso le parole delle canzoni del grande repertorio di Broadway.
Gaga e Phoenix, ciascuno con la propria voce, lontanissima per potenza, timbro e intonazione, giocano alla magia del cinema continuando a dirsi le parole d’amore delle canzoni più celebri del songbook americano, da Get Happy a When You’re smiling, da Bewitched, Bothered and Bewildered a Gonna Build a Mountain e ovviamente alla popolarissima That’s entertainment, scritta da Arthur Schwartz e Howard Dietz per Spettacolo di varietà di Minnelli, film che viene mostrato ai detenuti di Arkham e che ricorre più volte e funge da vero leitmotiv all’illusione d’amore di Arthur per Lee.
Ma non tragga in inganno la magia dolce del musical, il film di Phillips è il cupissimo ritratto della nostra società dello spettacolo, che ci richiede un volto pubblico mediato dai social – e nel caso di Joker dalla tv imperante nei primi anni ’80 – e un volto privato, che forse non interessa più a nessuno, se non a noi stessi. “Put on a happy face”: l’importante è che si continui a sorridere.
In fondo l’incipit animato con il dissidio tra Joker e la sua ombra non avrebbe potuto essere più esplicito nel prefigurare, come in una sineddoche, i temi di questo secondo capitolo.
Arthur vuole solo essere amato, ma a Lee questo non interessa: pretende che sia il crudele e giacobino Joker, non il timido e impacciato stand up fallito. Lei è una feticista del sangue e della morte, la personificazione degli istinti brutali della folla, che non crede più al simulacro della giustizia e si affida al tribunale mediatico, un circo in cui le regole e la morale sono piegate al consenso.
Il film si appropria di questa riflessione e si muove così su un doppio registro, quello realistico del processo incendiario che attende Arthur e quello di finzione che mostra un illusorio what if: tra lei e Arthur non c’è storia (criminale?) possibile, nel momento in cui il protagonista sveste la sua maschera e si presenta con il suo vero volto scavato dal dolore e il suo corpo deformato dalle avversità della vita.
Joker: folie à deux si muove tra l’aula di giustizia e le celle dell’istituto, disegnando per il protagonista un destino di inesorabile condanna nella dimensione reale, trasfigurato poeticamente nell’universo immaginato con Lee.
In questo doppio registro si muove un racconto che chiude la parabola di Arthur rispondendo in maniera esplicita anche a coloro che avevano dipinto il primo Joker firmato da Phillips e Silver come il ritratto a tinte fosche di un antieroe eversivo, qualunquista e populista, un incel antisociale e misogino, agente del caos.
La risposta dei due autori non avrebbe potuto essere più chiara e il finale si incarica, un po’ come accadeva nel Cavaliere Oscuro di Nolan, di mostrare come la stessa mitologia distorta che ha esaltato il Joker ne pretenda ora il martirio.
Se il primo capitolo era un classico film di origini, con la progressiva costruzione di una dimensione “eroica”, con l’ascesa criminale del villain, questo secondo invece mostra la lenta discesa di Arthur verso il suo destino di solitudine.
Phillips disegna ora per il suo Arthur una progressiva riappropriazione di sé, attraverso il rifiuto della dimensione messianica del Joker, così come della sua maschera, diventata strumento incontrollabile di morte e terrore. Arthur è in fondo l’esatto opposto dell’ottusità spaccona del Tony Stark degli Avengers, quando afferma un attimo prima di andarsene “I’m Iron Man“: il “There is no Joker” di Arthur sembra una risposta indiretta e un rifiuto chiaro.
E poco importa se questo vuol dire perdere l’amore dell’unica donna della sua vita e il sostegno fideistico dei suoi epigoni: la riconquista di un’identità autentica e l’assunzione delle proprie responsabilità per il dolore e la morte causate sono principi non negoziabili.
Joker assume così una dimensione pienamente tragica, non solo nel rifiuto della violenza esercitata nel primo film, ma anche di quel ruolo pubblico che la frenesia dei media e gli spiriti peggiori della nazione avevano cucito su di lui.
Il lavoro di Phillips è spiazzante, inconsueto, non assomiglia a nessuno dei sequel a cui siamo stati abituati dal cinema di questo nuovo secolo. Non ci sono formule da seguire, nè alchimie da rispettare. Joker: folie à deux è lontanissimo dall’originale, pur essendo prossimo e contiguo alla storia raccontata cinque anni fa. E’ un film di straordinaria generosità e audacia: il successo clamoroso ottenuto e i premi vinti hanno indubbiamente aiutato il regista a muoversi in piena autonomia creativa. Ma la sfida lanciata è indubbiamente complessa.
Eppure il film funziona bene anche solo nella sua dimensione musical, con i set ricostruiti, la musica extradiegetica e il rispetto della drammaturgia classica, per come le canzoni si inseriscono nei dialoghi tra i personaggi.
Naturalmente lo sconfinato talento musicale di Gaga ha modo di risplendere grazie al repertorio interpretato con coloriture spesso molto diverse. Ma è Phoenix a incarnare ancora una volta un ruolo che sembra cucito sulle sue idiosincrasie, facendolo ancora una volta pienamente suo, con una trasformazione fisica che resta impressionante e con una generosità che compensa le incertezze vocali. Il suo Arthur assume su di sé in una trasfigurazione cristologica tutto il dolore del mondo, anche quado ride senza motivo, anche quando balla, anche quando si pulisce il trucco dal volto e si scrolla le macerie dal vestito.
Meno interessante lo spazio processale, in cui gli eccessi teatrali appaiono un po’ troppo forzati: ma è un passaggio necessario per consentire a Arthur di riacquistare un passo alla volta l’ autenticità dei propri sentimenti.
That’s All Folks!
Da non perdere.


