Vita, morte e pochi miracoli di Riccardo Schicchi, l’agente di spettacolo che con Diva futura portò il porno nel cinema italiano, grazie alla popolarità delle sue starlette, guidate da Ilona Staller, Moana Pozzi e Eva Henger, la prima e la terza anche sue compagne per molti anni.
La sua agenzia-casa-albergo-bunker sulla Cassia diventa tra gli anni ’70, ’80 e ’90 l’epicentro di un fenomeno culturale che il successo di Gola Profonda aveva reso accessibile ad ogni pubblico nel mondo, ma che in un Paese ancora bigotto e largamente influenzato dalla Chiesa cattolica, aveva stentato a trovare il suo spazio.
Il film di Giulia Steigerwalt, prodotto da Groenlandia di Rovere e Sibilia, con una partnership di Netflix, porta impresso a fuoco il marchio della sua produzione. Un lavoro del tutto innocuo, positivo, superficiale, paratelevisivo: un crowd pleaser facile, facile da servire con qualche prurigine da film erotico, tutto buoni sentimenti, famiglie disfunzionali e testimoni sensibili.
Sì perché il racconto proviene dal libro che la segretaria di Schicchi, la timida Debora Attanasio, ha pubblicato qualche anno fa, in gloria di quegli anni felici, tra retate della polizia, pitoni deceduti improvvisamente, esibizioni, contratti e il peso forse insostenibile della scomparsa di Moana, che infatti si prende uno spazio centrale anche nel film, perché è in fondo l’unico evento che potrebbe portare il lavoro della Steigerwalt verso lidi meno patinati.
Per mescolare un po’ la banalità degli eventi, come raccontati dalla regista, il montaggio li frammenta in tanti pezzi diversi che poi sistema senza alcun senso narrativo, andando avanti e indietro nel tempo senza alcuna necessità vera.
La scelta di metterlo in concorso è quanto mai sciagurata: è questa davvero l’immagine che la Mostra vuole dare del nostro nuovo cinema italiano al femminile? Le tre pornostar sono francamente imbarazzanti e scolorano al confronto delle originali.
Come accade spesso nei film Groenlandia, i volti degli attori vengono sovrapposti ad immagini televisive di repertorio: compaiono quindi Enzo Biagi, Maurizio Costanzo, Roberto d’Agostino, Pippo Baudo, in brevi interviste alle tre pornodive, segnando i loro pochi spazi di legittimità mainstream.
Si salva Pietro Castellitto, capace di restituire tutta la vena surreale e clownesca di Schicchi, il suo fisico allampanato, la sua bulimia pagata con il diabete, il suo spirito hippie, perfetto per una sceneggiatura che gli mette in bocca battute come “vogliamo stupire, non mortificare”, “siamo amorali, non immorali”, oppure “le nostre artiste non vanno umiliate, vanno sublimate”.
Resta Barbara Ronchi, di solito molto brava e qui un po’ troppo impacciata, anche se la parte della segretaria suo malgrado un po’ di reale imbarazzo lo avrà creato: Debora si ritrova come Alice nel paese delle meraviglie, in un mondo lontanissimo dal suo e di cui forse condivide un certo anelito libertario.
Ma il suo è un ruolo – quello della segretaria repressa – che sembra uscito proprio da uno dei film di Schicchi. Chissà se la scelta è voluta…
I discorsi sulla pornografia, le sue derive, la mortificazione femminile e tutte le riflessioni che negli ultimi 50 anni hanno accompagnato il fenomeno, sono giusto abbozzate e forse è meglio così, perché Diva Futura non sembra proprio avere gli strumenti culturali per sostenerli.
Il film vola basso, bassissimo, tra battute magari anche indovinate, piccoli e grandi drammi familiari e un finale che non riesce neppure a capitalizzare, in ragione della struttura frammentaria, un certo senso inesorabile di un mondo arrivato alla fine.
Persino la scena finale, un flashback felice sulla spiaggia, sembra l’ennesima strizzata d’occhio ad un pubblico da piattaforma.
Inutile.

