Queer

Queer **1/2

William Burroughs scrive Queer come una sorta di estensione del suo primo breve manoscritto, Junkie, nel periodo in cui aspetta di essere processato per l’omicidio accidentale della moglie Joan Villmer, tra il 1951 e il 1954.

Quando i suoi timori sul valore di Junkie vengono fugati e il libro pubblicato, il suo interesse per Queer svanisce del tutto e per trent’anni il suo lavoro, largamente ispirato al suo burrascoso rapporto con l’ex marine Adelbert Lewis Marker, rimane chiuso in un cassetto, anche per il peso emotivo della storia raccontata, fino alla pubblicazione nel 1985.

Luca Guadagnino legge il romanzo ancora adolescente, ma il desiderio di adattarlo si concretizza solo sul set di Challegers nella primavera del 2022, quando affida l’incarico di scrivere una sceneggiatura allo scrittore e sceneggiatore Justin Kuritzkes. Il progetto prende forma molto velocemente, grazie a Lorenzo Mieli che tratta l’acquisizione dei diritti e fissa l’inizio delle riprese, quasi tutte in studio a Cinecittà, a fine aprile 2023.

Queer è diviso in tre capitoli più un epilogo ed è la storia dell’incontro del maturo William Lee, uno scrittore che non scriverà una sola riga in tutto il film, con il giovane Eugene Allerton.

Lee vive in una Città del Messico immersa in una luce calda e sognante e passa le sue giornate allo Ship Ahoy e negli altri bar malfamati della capitale: mezcal, tequila, rum&cola e una impellente dipendenza da oppiacei non riescono a riempire le sue giornate, costantemente impegnate a costruire le condizioni di nuovi incontri omosessuali, consumati in fretta, in alberghi a ore.

Quando sulle note di Come As You Are dei Nirvana Lee vede per la prima volta il distinto e occhialuto Eugene le cose precipitano verso l’inevitabile. Il suo corteggiamento è paziente, incredulo, ma non meno febbrile, anche se il giovane si accompagna quasi sempre con una giovane donna, Mary.

Lee lo porta a casa sua invece che nei motel malfamati del barrio, ma questo non cambierà la dimensione contrastata del loro rapporto.

La seconda parte del film vira decisamente, abbandonando la dimensione più romantica, e coinvolgendoci in una sorta di avventuroso viaggio interiore in Equador, in mezzo alla giungla, alla ricerca della misteriosa erba yage o ayahuasca le cui proprietà telepatiche sono diventate per Lee un’ossessione.

L’epilogo è invece ambientato due anni dopo, sempre allo Ship Ahoy di Città del Messico.

Il film di Guadagnino, illuminato ancora una volta da Sayombhu Mukdeeprom, nel tentativo di replicare la stessa dimensione onirica e sospesa dei film di Powell e Pressburger che il regista ha citato come sua chiave d’ispirazione elettiva, funziona molto bene soprattutto nel primo capitolo.

Il peregrinare ossessivo di Lee è quello di un uomo che pare alla continua ricerca di sè, nei suoi incontri fugaci, nelle sue chiacchiere interessate, nelle sue avances discrete: l’amore è un miraggio lontano, colmato da notti illuminate di rossi fiammeggianti. La miseria di sè, il declino inesorabile, il bisogno di affetto ne fanno un personaggio tragico, un eroe da melodramma, anche quando l’incontro con Eugene sembra cambiare improvvisamente le cose.

Eppure anche quello sarà un inganno. A questa prima parte che sembra riassumere in modo radicale e ispiratissimo tutto il cinema di Guadagnino, le sue ossessioni formaliste e la malinconia del suo universo narrativo, seguono i due inutili capitoli di viaggio, che precipitano il racconto in una deriva di banalità lisergiche, fuori tempo massimo. Il rapporto tra i due personaggi si appiattisce, si fa maniera e si dissolve nel lungo trip con lo yage, sotto l’egida di una biologa sciroccata.

Fortunatamente l’epilogo ci riporta ad una nuova teoria degli addii, alla maledizione del tempo perduto, con una grazia e un’inventiva che riposizionano il film nella dimensione più autentica e personale che gli compete. Ma forse è già troppo tardi: visioni e apparizioni si muovono su un terreno di pura astrazione, mentre il tempo scorre ad un ritmo impossibile e ci ritrova vecchi e soli, perduti tra ricordi che si fanno pulviscolo nell’universo.

Queer resta un lavoro molto diseguale, illuminato nella sua vena romantica e sgangherato in quella del trip, gustosamente divertito nei duetti di Lee con gli altri americani espatriati, su cui svetta il Joe di Jason Schwartzman, derubato continuamente – e in fondo felice di esserlo – dai suoi amanti occasionali.

Il primo montaggio del film superava le tre ore e mezza, poi è stato più volte ridotto sino agli attuali 135 minuti. Le famigerate scene di sesso bollente devono essere rimaste sul pavimento della moviola, perché qui c’è giusto una scena di fellatio e poco altro.

A Daniel Craig Guadagnino ha regalato un personaggio dolcissimo, impacciato, desideroso di affetti e di compassione. Il suo Lee è un uomo destinato all’infelicità e al rimpianto. Per l’ex James Bond, un ruolo sensazionale, che ne mostra vulnerabilità inedite. Peccato che il film non sia sempre all’altezza della sua generosità interpretativa.

Evidentemente sentito e amato, il film di Guadagnino rimane un’incompiuta, che arriva forse un po’ fuori tempo massimo: un certo spirito beat sarebbe stato meglio accolto negli anni ’90. Oggi ci appare un reperto piuttosto arrugginito.

Ed è un peccato perché quando Guadagnino invece indaga il desiderio e la frustrazione d’amore il ricatto emotivo e la confusione identitaria e sessuale investe il suo film di una magia e di un spleen necessari.

Diseguale.

 

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