Una terra desolata e irriconoscibile, priva di qualsiasi identità, un non-luogo in cui sorgono solo sparuti e tetragoni edifici, in cui la presenza umana pare solo uno sfortunato accidente: lo spazio in cui si muovono i personaggi di Dostoevkij è una sorta di purgatorio senza via d’uscita, da cui non non si esce neppure cercando il suicidio, come vediamo nella prima scena di questa nuova serie firmata dai fratelli D’Innocenzo.
Ingollate troppe pillole il detective di polizia Enzo Vitello ha scritto una nota per chi troverà il suo corpo e un testamento in cui cita solo la figlia Ambra. Ma non riuscirà a portare a termine il suo tentativo, perché il capo lo chiama al telefono, convocandolo subito sul luogo di un triplice brutale delitto che sarà l’inizio di una nuova ossessione per il disperato protagonista.
Sette mesi dopo le indagini sono ancora aperte: il serial killer, che Enzo e la sua squadra hanno ribattezzato Dostoevkij, ha continuato a colpire in luoghi diversi, con modalità sempre nuove, lasciando sempre una nota scritta di suo pugno piena di vaneggiamenti filosofici ed esistenziali pieni di vacuo nichilismo.
Nessuna traccia, nessuna ipotesi, il coordinamento con le altre squadre locali è nullo, anzi controproducente, ma nella squadra di Enzo arriva un nuovo giovane agente, Fabio, che sembra osservare gli altri con un continuo disappunto.
Mentre i corpi continuano ad aumentare, Ambra, la figlia di Enzo, contribuisce a portare nuovo dolore nella sua vita. Lui l’ha abbandonata da piccola e l’odio e il rimpianto sono gli unici sentimenti che li legano. Lei vive in una villetta mai finita in un quartiere spettrale, assieme ad altre due tossicodipendenti. Il padre la recupera “a casa degli zingari”, la ospita, cerca di ricostruire un rapporto nuovo, ma quello che ottiene è solo un video intimo che la ragazza invia a tutti i suoi colleghi, per farlo sprofondare in nuove umiliazioni.
Enzo però nasconde un orrendo segreto che l’ha costretto ad allontanarsi dalla sua famiglia.
Nel frattempo, dopo essersi dimesso dalla polizia, insegue una pista promettente che fa capo ad un vecchio orfanotrofio e ai suoi bambini perduti.
Un pezzo alla volta riuscirà a ricomporre il puzzle, ma come dimostra la colonscopia che chiude il primo episodio della serie, questa indagine è soprattutto un viaggio dentro se stesso e i propri orrori.
Il mondo descritto dagli autori di Favolacce è ancor più cupo e oscuro di quello rappresentato nei loro primi tre film. Segnato da un degrado che è innanzitutto estetico e poi anche etico. Gli edifici crollano a pezzi, i muri sono scrostati, le case sporche e senza cura, i personaggi affondano in una melma appiccicosa di mediocrità e inedia.
La vita di provincia è una sorta di nulla in cui la presenza antropica è solo accidente. Anzi, forse contribuisce a rendere quegli spazi ancor più insostenibili.
Lo sguardo dei due fratelli non è mai stato così osceno, depresso: siamo vicino al cinema del primo Bruno Dumont, in cui non c’è neppure un barlume di speranza cristiana a rischiarare la notte perpetua e l’ironia surreale non è mai una chiave per riscattare il male di vivere che attraversa tutti.
I personaggi sono uomini (e donne) senza qualità: traditori, infedeli, diffidenti, egoisti. E forse peggio.
Fantasmi pasoliniani si affollano in una campagna laziale che non è mai stata più disperante, mescolandosi, soprattutto nelle ultime puntate, ad un certo gusto per il grand guignol dei nostri gialli anni ’70.
La fotografia di Matteo Cocco, mirabilmente esatta e calda nel digitale di Favolacce, qui sfida l’intelleggibilità stessa dell’immagine in un 16mm che impasta in un grigio confuso ogni cosa.
Il formato televisivo poi non aiuta di certo ad apprezzare interni così mal illuminati e scenografie così deturpate. Ma si tratta del correlativo oggettivo dell’animo in putrefazione di un gruppo di personaggi perduti nel proprio senso di colpa e nelle proprie ossessioni divoranti.
Resta il sospetto tuttavia che i fratelli D’Innocenzo indubbiamente abili nel trasformare suggestioni diverse (Claire Denis? True Detective? i fratelli Safdie?) in uno stile unico e personale, questa volta anche molto più radicale del consueto, indugino con un certo insistito compiacimento in una galleria di atrocità familiari, degrado, abiezione e fascinazione per il torbido e il sordido, costruendo un racconto tetragono ad ogni raggio di sole così come ad ogni briciola di compassione e umanità.
Questi ritratti degni della mostruosità di Bacon sono rappresentazione rigorosa e morale di un dolore autentico, di un disagio vissuto o piuttosto un nuovo campionario di provocazioni che servono a épater i loro spettatori?
Questione antica e forse inutile, di chi ancora si interroga sulla dimensione etica delle immagini, mentre il mondo ci sommerge di suggestioni continue ogni secondo, dai nostri telefoni. Ma che senso ha rivelare il motivo indicibile che ha costretto Vitello ad abbandonare la figlia da bambina? Che cosa aggiunge al suo personaggio, se non un ulteriore livello di abiezione e degrado?
Dopo un’assenza piuttosto significativa, Filippo Timi è costretto a sostenere quasi da solo l’intera costruzione drammatica. Sono pochissime le scene che non lo riguardano. Il suo ispettore Vitello è una sorta di dead man walking, uno zombie ritornato in vita che si ritrova immerso in un panorama di cadaveri e vittime, fino a identificarsi in tutto con il killer a lungo inseguito.
Gabriel Montesi nel ruolo del giovane e ambizioso collega è poco più di uno stereotipo, così come Federico Vanni nei panni del capo di Vitello, l’unico che pare avere un affetto sincero per lui. Il resto del cast è francamente poco significativo, compresa Carlotta Gamba che interpreta Ambra, in modo francamente traballante.
Dopo l’irrisolto America Latina, un altro mezzo passo falso per i D’Innocenzo, che tentano una strada esteticamente e formalmente diversa, senza riuscire a dissolvere davvero i dubbi che si sono addensati sul loro cinema.
A cinema in due parti da questa settimana. In autunno su Sky.

