Masters of the Air: una serie leggermente fuori fuoco…

Masters of the Air **1/2

Masters of the Air è il terzo capitolo di un’ideale trilogia sulla seconda guerra mondiale iniziata nel 2001 con Band of Brothers e proseguita nove anni più tardi con The Pacific. Anche in questo caso i produttori esecutivi sono Steven Spielberg, Tom Hanks e Gary Goetzmann. La sceneggiatura è affidata a John Shiban (X-Files, Breaking Bad, Ozark) e John Orloff (già in Band of Brothers). Masters of the Air è tratta da un libro del 2007 scritto da Donald L. Miller, biografo e professore di storia al Lafayette College, Pennsylvania. Il budget stratosferico, pari a 250 milioni di dollari (poco meno di trenta milioni a puntata…), ne fa una delle serie più costose di sempre.

“Quasi nessuno di noi era mai stato lontano da casa, figuriamoci su un aereo”. Una voce narrante che si rivelerà essere il tenente Harry Crosby, introduce i fatti. Nella primavera del 1943 il 100th Bomb Group, di stanza in Nebraska, riceve l’ordine di spostarsi in Maine, e da lì, seguendo una rotta artica, verso l’Inghilterra. “Venivamo da ogni angolo del Paese con un obiettivo comune: portare la guerra a casa di Hitler”. Oltre ai nazisti, ci si deve battere contro nemici subdoli e inaspettati. Vediamo Crosby, che sarà poi ricordato come uno dei migliori navigatori della seconda guerra mondiale, costretto a fronteggiare un nemico inaspettato: il mal d’aria.

La prima missione sulla Germania, per colpire i micidiali U-Boot tedeschi nel porto di Brema, svela l’esistenza di strani riti. La colazione abbondante prima del volo diventa per tutti un’ultima cena. L’ironia qui, vale come esorcismo. In pochi desiderano parlare col prete. Qualcuno improvvisa formule apotropaiche involontariamente poetiche. Oggi volerò come un angelo anziché diventarne uno. In cielo gli uomini pregano a denti stretti. La conta crudele degli aerei che ritornano a terra, per capire quanti siano quelli mancanti, ha qualcosa di sacro. Il mancato ritorno significa, con molta probabilità, morte.

Non c’è tempo per piangere l’amico caduto. Le infrastrutture tedesche devono essere colpite duramente. Le bombe dal cielo spianeranno la strada all’invasione di terra, all’epocale D-Day del 6 giugno 1944. I membri degli equipaggi sono consapevoli di trovarsi di fronte a una sfida con la sorte. Molti di loro, con un centinaio di ore di addestramento alle spalle (pochissime), devono “credere di essere pronti”.

Masters of the Air meriterebbe di essere visto al cinema. La serie è spettacolare dal punto di vista visivo. Lassù, nel cielo immenso, la guerra avviene in fasi. Prima, entra in gioco la contraerea. Scoppi, esplosioni, ali ridotte a brandelli. Segue un silenzio irreale, che non significa pace, né tregua. Con i cieli sgombri, la Luftwaffe è libera di agire. L’attesa degli aerei nemici è angosciante. Arrivano dal nulla, a centinaia, velocissimi. Le battaglie aeree risultano impressionanti, esattamente come le battaglie terrestri di Band of Brothers. Le scene sono sublimi. Duelli incrociati di missili, fusoliere sforacchiate, fiumi di proiettili che massacrano la carne umana. Quando la situazione è compromessa, resta solo il lancio con il paracadute.

Masters of the Air, al pari di Band of Brothers, narra il sentimento della fratellanza, un comune sentire più forte dell’amicizia perché cementato dai tempi di guerra, con un’ovvia declinazione al maschile. Il focus si stringe, in particolare, sui maggiori Gale “Buck” Cleven e John “Bucky” Egan. “Se un giorno la guerra finisse e rimanessero solo due a volare nel cielo, quei due saremmo io e te, Buck”. Inseparabili, affiatati e affratellati perfino dai rispettivi nomignoli, Buck e Bucky condividono un destino parallelo. In momenti diversi, sono catturati dai nazisti.

Masters of the Air segue le vicende del maggiore Egan, colpito dal fuoco nemico sui cieli della Germania. Egan si lancia con il paracadute e atterra oltre le linee nemiche. Solerti contadini teutonici lo catturano per consegnarlo alle forze dell’ordine. Comincia così un’epica differente. Le immagini delle città devastate dai bombardamenti americani ricordano la Germania filmata da Rossellini, o ancora le atmosfere descritte in Autunno Tedesco da Stig Dagerman, in occasione del suo viaggio postbellico (1946) nel cuore dell’ormai ex Terzo Reich. Così lo scrittore svedese descriveva la devastazione di Amburgo: “Travi arrugginite spuntano dalle macerie come prue di navi affondate da tempo. Colonne che un destino dotato di senso artistico ha scolpito da blocchi di case distrutte si slanciano da mucchi bianchi di vasche da bagno in frantumi o da grigie montagne di sassi, mattoni sbriciolati, termosifoni carbonizzati”.

Una folla inferocita lincia i soldati americani presi prigionieri. Solo poche settimane prima Egan si chiedeva cosa significasse trovarsi dal lato sbagliato di una bomba. La risposta è sotto i suoi occhi. Masters of the Air non mette mai in dubbio la moralità delle scelte alleate. La guerra contro Hitler è da vincere a ogni costo. I dubbi sollevati da qualcuno, in merito alla liceità di colpire anche i civili (i cosiddetti danni collaterali), sono messi da parte in nome dell’obiettivo ultimo. Per la verità, a differenza degli inglesi, gli americani scelgono di volare di giorno ed essere più chirurgici nei bombardamenti. Complessi industriali, fabbriche di cuscinetti a sfera, arterie ferroviarie…

Tuttavia, la guerra aerea vista dal basso è spietata e, in nome della pura razionalità bellica, sembra dare ragione al giurista (controverso ma quantomai lungimirante) Carl Schmitt. Le bombe, intelligenti o meno, spazzano via ogni residua possibilità di limitare l’inimicizia tra i belligeranti. Detto in parole povere: la guerra aerea trasforma chiunque stia là sotto in puro nemico.

La tensione tra l’elemento dell’aria e quello della terra è una costante di Masters of the Air. Dagli aerei si assiste alla distruzione (la visione dall’alto dei quartieri di Berlino rasi al suolo dalle bombe) e si ricevono messaggi di gratitudine dalla popolazione stremata dalla fame (il “grazie” disegnato sui campi di papaveri in Olanda durante le operazioni Manna e Chowhound). Nei cieli avvengono mattanze e sbocciano miracoli. In alcuni momenti si sfiora un misticismo alla Terrence Malick. Il maggiore Robert “Rosie” Rosenthal, avvocato ebreo di Brooklyn che un giorno interrogherà Hermann Göring al Processo di Norimberga, sperimenta la solitudine più atroce, quella che si prova a essere l’unica fortezza volante del “centesimo sanguinario” a ritornare alla base al termine di una missione. Quanti colpiti? Quanti caduti? Quanti andati a fuoco? Avete visto aprirsi il paracadute? Il numero 25 è “magico”. Dopo 25 missioni, che sono tantissime, il membro di un equipaggio viene di diritto rimandato a casa, con il compito di fare propaganda.

Tornando a Egan, il maggiore si “mimetizza” in mezzo ai cadaveri e riesce a scampare a una morte certa. Nuovamente catturato, finisce così in uno Stalag, cioè un campo di concentramento tedesco per prigionieri di guerra. Qui, come in una favola spielberghiana (ma è tutto vero), ritrova l’amico fraterno, Cleven, dato per disperso ed erroneamente creduto morto. Nel sesto episodio sono messe a confronto le condizioni di vita dei soldati catturati, molto dure sebbene privilegiate rispetto a quanto riservato dai nazisti ad altri nemici del Reich, e i viaggi premio concessi a Rosenthal e a Crosby. Per quanto sembri strano, una nazione in guerra può permettersi ancora la caccia alla volpe, le partite di croquet e i bagni caldi… quanto sono aristocratici gli inglesi agli occhi degli americani, e quanto sono attaccabrighe gli americani agli occhi degli inglesi… Sempre in questo episodio, ascoltiamo i versi di una canzone di Woody Guthrie, Tear the Fascists Down, ed è uno dei momenti più sinceri dell’intera serie.

Gli ultimi due episodi sono in parte dedicati agli uomini del 332° Gruppo Fighter P-47, di stanza a Campomarino, nei pressi di Termoli. Il soprannome di questi maestri dell’aria era Tuskegee Airmen, dalla località dell’Alabama dove si erano arruolati e successivamente formati, su impulso del Presidente Roosevelt. Fu il primo squadrone di piloti da combattimento di colore degli Stati Uniti d’America. Con i loro aerei, dalla caratteristica coda rossa, martellarono i nazisti nei cieli italiani e del sud della Francia. Masters of the Air si sofferma sulle figure dei sottotenenti Richard D. Macon e Alexander Jefferson e sul capitano Robert H. Daniels, tutti catturati dai tedeschi. L’interrogatorio regala un momento paradossale. “Perché combattete in un Paese che vi tratta così?”, chiede l’ufficiale della Luftwaffe, esponente di un regime dottrinalmente basato su una concezione razzista dell’umanità. “Sa nominarmi Paesi migliori?”, risponde il sottotenente Macon.

Masters of the Air vorrebbe trasmettere un sentimento di fiducia verso il futuro. Macon, pur consapevole dei limiti dell’America, sa che la sua nazione “è sulla strada per diventare ciò che aveva promesso di essere”. Al termine della serie assistiamo alla consueta carrellata sulle vite dei protagonisti a guerra finita. Chi diventò imprenditore, chi docente, chi combattè ancora, chi tornò, come Rosenthal, a svolgere la professione forense, pur con una consapevolezza nuova.

Probabilmente la debolezza della serie, segnalata da molti critici, soprattutto se messa a confronto con la solennità di Band of Brothers, è imputabile anche alla differente collocazione storica della messa in onda. L’America del 2001 era impegnata a riedificare se stessa sulle macerie dell’11 settembre e l’ispirazione patriottica incontrava allora un sentimento collettivo. I protagonisti di Masters of the Air oggi sono tutti morti e con loro sembra svanita un’idea di America. Lontana è l’America che entrò in guerra per liberare l’Europa, il mondo, dalla barbarie nazista e, non di meno, in crisi è l’America nata da quella guerra. In crisi è il concetto stesso di speranza e fiducia. In crisi è l’ottimismo.

Anche in Band of Brothers la scoperta dei campi di sterminio rappresentava un momento dirimente. Un punto di non ritorno per tutta l’umanità. In Masters of the Air un uomo racconta di aver seppellito madre, figlia e nipoti in una fossa. Di aver preso in mano la pala. Di averlo fatto perché non aveva scelta. Le baracche nascondono mucchi di cadaveri ridotti pelle e ossa, carcasse crivellate da fori di proiettili, corpi bruciati: è per questo che l’America ha combattuto. E poi, l’apparizione di un cavallo bianco spuntato da chissà dove. La guerra è il tempo della follia. Sempre nell’ultimo episodio, il maggiore Cleven, in fuga nei boschi, non spara a un tedesco. Rinuncia, quando scopre che quell’uomo è solo un bambino in divisa. È la possibilità della pietà. Agli alleati è riconosciuta la capacità di lottare contro i mostri senza diventare essi stessi mostri.

Il cast di Masters of the Air è imponente. Austin Butler, Callum Turner, Anthony Boyle, Nate Mann, Louis Greatorex, solo per citare alcuni attori (ci sono anche un paio di figli d’arte…), donano verosimiglianza, anche nelle fattezze, ai loro personaggi. Una marea di uomini chiamati a dare sostanza a un racconto corale, che però, almeno a tratti, vorrebbe farsi più intimo, per esplorare la dimensione privata dell’amicizia, o meglio ancora dell’intesa umana che si può sperimentare lontano da casa. La sola attrice con un ruolo significativo è Bel Powley, nei panni di una sfuggente militare scozzese che avrà un peso nella vita di Crosby.

La serie racimola ogni elemento utile dal fondo del nostro immaginario sugli aerei della seconda guerra mondiale. Le carlinghe decorate con i disegni di pin-up, le dediche scritte a mano sulle bombe, le svastiche a rappresentare, ognuna, un velivolo nemico abbattuto. Tutto vero, eppure tutto, troppo, museale. In Band of Brothers le incredibili scene della battaglia delle Ardenne erano un capolavoro di brutalità. Qui, difficilmente si raggiunge la medesima intensità, nonostante una fotografia accurata e, come detto, un dispiego di risorse comunque evidente nella resa estetica degli scontri nell’aria. Lo sbarco in Normandia, l’avanzata via terra, la conquista dei villaggi francesi, le ritirate, via via fino all’ingresso in Germania e la salita al “nido delle aquile”… il respiro epico di Band of Brothers è unico. Masters of the Air non centra il bersaglio. Ci perdonerà da lassù il fotografo Robert Capa, se prenderemo a prestito la definizione che contraddistingue i suoi importantissimi scatti, peraltro, del D-Day. Masters of the Air è sempre, leggermente, fuori fuoco (slightly out of focus).

Titolo originale: Masters of The Air

Numero di episodi: 9

Durata: 48-77 minuti l’uno

Distribuzione: AppleTv+

Uscita in Italia: 26 gennaio – 15 marzo 2024

Genere: War drama

Consigliato a chi: ha dormito per tre giorni di fila, non è mai scappato davanti al controllore del treno, quando sente dire “ore sei” sa che deve voltarsi.

Sconsigliato a chi: non ha mai smontato una radio, non ha dimestichezza con le piazze di Londra, quando sente dire ore dodici pensa subito a mezzogiorno.

Letture e visioni parallele:

  • Settantamila vittime civili a causa dei bombardamenti, un tema che forse abbiamo rimosso: Marco Gioannini, Giulio Massobrio, L’Italia bombardata. Storia della guerra di distruzione aerea 1940 – 1945, Mondadori, 2021.

  • L’evoluzione della guerra aerea pone quesiti: Gregoire Chamayou, Teoria del drone. Principi filosofici del diritto di uccidere, DeriveApprodi, 2014.

  • I ragazzi di Tuskegee. Il film di Robert Markowitz del 1995, vincitore di 3 Primetime Emmy, è disponibile su Prime Video.

Un messaggio: Jerry, if you are close enough to read this, start prayin’.

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