Nove anni dopo l’esordio al Festival di Cannes di Inside Out – forse l’ultimo capolavoro della Pixar di John Lasseter, firmato da Pete Docter, arriva nelle sale italiane anche il secondo episodio, che segna l’esordio alla regia dell’animatore Kelsey Mann (Monsters University, Onward – Oltre la magia).
Il primo film era capace di trasformare la seriosità di saggio sulle neuroscienze in un’avventura appassionante e divertente attraverso i sentimenti di una bambina di undici anni, costretta a ricominciare tutto dopo il trasferimento dal Montana a San Francisco. Nella capacità di umanizzare i processi cognitivi, mnemonici e i meccanismi dell’inconscio, Docter continuava a lavorare con spirito autenticamente autoriale anche su alcuni dei temi che hanno attraversato sin dall’inizio l’universo narrativo della Pixar: l’idea che i processi creativi nascondo possibili fallimenti e idee sbagliate da cui occorre sempre risollevarsi, e che ogni avventura ci può portare a sperimentare i recessi più inaccessibili di noi stessi, da cui occorre riemergere perché ogni esperienza concorre a fare di noi quello che siamo.
Inside Out 2 continua intelligentemente sulla stessa strada, introducendo un elemento interamente nuovo: lo sconvolgimento radicale della pubertà.
Riley infatti ha tredici anni e sta per scegliere il liceo in cui trascorrerà la sua adolescenza. Appassionatissima di hockey, condivide con Bree e Grace un’amicizia che si è cementata sul ghiaccio.
Quando la coach delle Firehawks, la prestigiosa squadra di hockey della Bay Area High School invita le tre ragazze ad un campus estivo presso la loro struttura, le cinque emozioni – Gioia, Tristezza, Paura, Rabbia e Disgusto – che hanno regolato la vita di Riley sino a quel punto, costruendo il suo “senso di sè”, si accorgono che non sono più da sole e che assieme a loro in questi tre giorni decisivi, ci saranno alla consolle anche l’invadente Ansia, oltre a Invidia, Imbarazzo e al sarcasmo di Ennui.
Quando Riley scopre che Bree e Grace andranno comunque in una high school diversa e i loro percorsi si divideranno inevitabilmente, i suoi tentativi di farsi accettare dalle Firehawks e di convincere la rigida coach della squadra a darle un’opportunità, la spingeranno a tradire se stessa, anche grazie al fatto che i sentimenti originari sono stati esiliati dalla control room e Ansia ha preso possesso delle operazioni una volta condotte da Gioia.
I tre giorni di Riley con le Firehawks corrispondono al tentativo di Gioia e degli altri sentimenti originari di recuperare il vecchio senso di sè della protagonista e di riconquistare il loro posto al Quartier Generale.
Il film di Mann continua ad avere le stesse qualità e gli stessi limiti del primo capitolo: se l’animazione non è particolarmente interessante e non introduce novità sostanziali, neanche nell’universo della mente attraversato dai sentimenti, tutta l’attenzione è invece rivolta ai meccanismi di formazione dell’identità, in un momento chiave come quello dell’adolescenza.
Se Gioia aveva ideato un modo un po’ sbrigativo per rimuovere i brutti ricordi di Riley, spedendoli rapidamente nell’inconscio, il tentativo di Ansia si modificare rapidamente il senso di sè della protagonista attraverso una serie di comportamenti discutibili e lontani dalla sua apparente personalità appaiono altrettanto sbagliati e destinati al fallimento.
Entrambi comprenderanno non dopo una lunga serie di errori, quanto sia importante il ruolo l’una dell’altra: la complessità di ogni essere umano si alimenta non solo dei ricordi felici, ma anche delle esperienze dolorose, degli sbagli, degli eccessi. “Io sono una brava persona” è un concetto troppo unilaterale, che non corrisponde neppure all’autentica esperienza di Riley e che nel finale concorre con altre idee capaci di restiuire un nuovo senso di sè più complesso e ricco di sfumature.
Il film riesce ad essere un’altra avventura appassionante, capace di parlare a ciascuno degli spettatori e di costruire nuovi caratteri immediatamente significativi e centrali, senza trascurare il ruolo dei sentimenti originari.
Meg LeFauve, che aveva già contribuito alla scrittura del primo Inside Out, oltre che a Il viaggio di Arlo e al soggetto di Captain Marvel, è qui accreditata in solitaria del lavoro di scrittura, che trae forza dalla semplicità dell’assunto inziale e della storia di Riley, su cui innesta il viaggio di Gioia e degli altri nei recessi della sua mente.
Anche se all’apparenza buoni e cattivi appaiono chiaramente distinti all’inizio, in realtà il film costruisce il suo racconto nel tentativo di negare questa distinzione binaria, mostrando gli errori e i fallimenti di Gioia, così come l’utilità di Ansia e degli altri nuovi sentimenti, se concorrono tutti senza sopraffarsi.
Mann è meno capace di utilizzare gli strumenti dell’immaginazione per costruire i processi cognitivi, limitandosi a recuperare le invenzioni di Docter e aggiungendo solo una sala delle proiezioni che assomiglia allo studio di un film d’animazione, in cui i disegnatori sono impegnati con rigidità fordiana a produrre su carta tutti i possibili scenari futuri.
Ma è solo un piccolo inner joke, all’interno di film che preferisce dare maggior rilievo all’elemento narrativo.
Il risultato resta in ogni caso una spanna sopra quasi tutto quello che la Pixar ha prodotto nell’ultimo decennio.
Nell’originale Ansia è doppiata da Maya Hawke, Invidia da Ayo Edebiri, Ennui da Adele Exarchopoulos.
Da non perdere.


