I dannati

I dannati ***

Dopo vent’anni nel cinema della realtà, raccontando con sguardo estatico e grande senso dell’osservazione comunità chiuse, realtà marginali, ossessive, soprattutto di quell’america profonda di cui molti parlano e pochi davvero hanno conosciuto, Roberto Minervini fa un passo nuovo, con il suo primo film di finzione, I dannati.

Un film che tuttavia non tradisce nemmeno per un attimo il suo cinema contemplativo, in cui paesaggio e natura sono parte integrante di un’esperienza umano anche questa volta destinata alla sconfitta.

Il tentativo questa volta è quello di ricostruire un passato lontano secondo coordinate il più possibile naturalistiche, quasi si trattasse di note di un diario perduto e ritrovato.

Siamo nel 1862 e l’esercito nordista invia ad ovest una carovana di uomini in terre ancora non mappate, per un viaggio di esplorazione. Siamo davvero su quella Frontiera, che è parte integrante del Mito fondativo della grande nazione.

Una frontiera in cui lupi famelici si dividono le spoglie di una carcassa nella prima sequenza del film. E’ quasi un monito a quello a cui assisteremo nei novanta minuti successivi: un cupio dissolvi in cui i soldati restano un elemento estraneo, incapaci di relazionarsi davvero con un territorio ostile, da ogni punto di vista, compreso quello psicologico.

Nelle lunghe ore passate in attesa si fanno strada i sentimenti più diversi, sulla giustezza della Guerra in corso, sul proprio ruolo di soldati, su quello della famiglia e della Patria, su una religiosità che ciascuno vive in modo diverso, sul senso pioneristico della loro presenza e sul perdono e la memoria.

Questa terra ha tutto, dice uno dei più anziani. Il tempo trascorre tra partite a baseball, carte, caccia ai bufali, turni di notte e qualche zuffa.

Prima che un assalto violentissimo lasci sul terreno la maggior parte del manipolo.

I quattro più esperti decidono infine di andare in avanscoperta.

Il film di Minervini è l’alba della nazione, un proto-western che di quel genere chiave nella storia del cinema americano ha elaborato ogni elemento, quello individuale e quello della comunità, quello del paesaggio e del Mito, dello spazio infinito e del tempo piccolo riservato a ciascuno per attraversarlo.

I dannati porta già nel titolo il destino dei suoi personaggi, eppure nel suo rifiuto di ogni epica, il suo film riesce a rileggere in modo originale coordinate che fanno parte da sempre del nostro immaginario.

Si sentono echi del lavoro di Larry McMurtry o di Cormac McCarthy, ma soprattutto di Kelly Reichardt (Meek’s Cutoff e First Cow). C’è lo stesso tentativo di spogliare l’epopea di ogni leggenda, raccontando episodi minimi, marginali, perduti.

Il suo sguardo, da sempre debitore della bellezza malickiana, si posa su un gruppo di uomini che la guerra ha esiliato e che si trovano infine a ripudiarla, in nome di una fusione profonda con quello spazio incontaminato che si trovano ad occupare.

It’s so quiet. Solo le ultime parole del film, mentre lo sguardo è rivolto al cielo e la neve cade copiosa.

Il sogno americano non è mai stato così lontano eppure Minervini nel racconto di questi uomini che (non) hanno fatto l’impresa, testimonia il loro diritto di esserci, sia pure nella marginalità di chi la Storia l’ha solo subita.

Senza bandiere e senza retorica. Basta quella divisa azzurra che garrisce comunque nel vento.

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