Bird

Bird **1/2

Dopo la trasferta di American Honey e il documentario animalista Cow, Andrea Arnold ritorna ai temi e alle atmosfere del suo Fish Tank che nel 2009 aveva vinto il premio della giuria proprio a Cannes e ripresenta in concorso un altro bellissimo ritratto femminile ambientato in quella contea di Kent, che le ha dato i natali.

La protagonista è una ragazzina di dodici anni, Bailey: i genitori vivono separati, con altri figli e in un contesto suburbano in cui non si è mai piccoli abbastanza per abituarsi al dolore del mondo.

Il padre Bug conta di recuperare i soldi per il suo imminente nuovo matrimonio, dalla bava allucinogena di una tartaruga, la madre vive con un uomo abusivo e violento, assieme alle sorelle più piccole di Bailey.

Improvvisamente nella vita della ragazzina compare un giovane stralunato, che si fa chiamare Bird. Viene da lontano, forse da un altro mondo ed è tornato a cercare le tracce della sua famiglia, che abitava vicino a quella di Bailey quando lui era bambino.

Tra i due outsiders si forma un legame speciale, che consente ai due di attraversare il rifiuto e la violenza, con una forza diversa.

Il film è costruito su una drammaturgia minima, ma coinvolge molti personaggi, perchè la famiglia allargata di Bailey è piena di sorprese: il fratello tenta di fuggire con la ragazzina di quattordici anni che ha messo incinta, le sorelline sono costrette ad assistere impotenti agli scatti d’ira di un patrigno impossibile. In mezzo a tutto questo la ricerca di Bird trova risposte che nessun figlio vorrebbe ascoltare.

Il film è vivo, vitale, pieno di personaggi fuori scala e fuori controllo, a partire dal Bug interpretato da Barry Keoghan, con la solita travolgente sbruffoneria, anche autoironica quando cita – forse volutamente – quella Murder on the Dance Floor che ballava nel finale di Saltburn.

A Franz Rogowski invece tocca il ruolo magico di Bird, affine a quello interpretato in Undine, nel quale la sua dolcezza stranita si sposa pienamente a quella del suo personaggio.

Forse nel casting, Arnold avrebbe potuto osare di più e ha invece compiuto scelte molto conservative e non particolarmente originali.

Su tutti però rimane in testa lo sguardo mobile, costantemente in tensione, dell’inedita Nykiya Adams, che sembra molto più grande dell’età che il suo ruolo dovrebbe avere, segno evidente di una infanzia vissuta due volte più veloce.

Il realismo degli underdog si mescola qui a elementi sovrannaturali, fiabeschi, in un mélage riuscito che non può lasciare indifferenti e che sposa lo sguardo compassionevole di Arnold all’interesse sociologico verso questo microcosmo ai margini. La regia sporca, quasi sempre in camera a mano, rinchiude in un poetico quadro a 4:3 con i bordi stondati e imperfetti, la vita sospesa di Bailey, in un abbraccio che non possiamo non condividere.

Arrabbiato.

 

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