I primi quattro episodi di Expats raccontano una tragedia familiare. Margaret, americana, vive da qualche anno a Hong Kong a seguito del trasferimento per ragioni di lavoro di suo marito Clarke. La coppia ha due figli, Philip e Daisy, più un terzo, Gus, di cui apprendiamo la scomparsa. Gus non è morto, o forse sì. Di certo, è stato smarrito (una condizione reale per il bambino e metaforica per i protagonisti adulti della serie). All’inizio, le dinamiche dell’accaduto non sono presentate in maniera esplicita. Ciò che invece è chiaro, è il momento di profondissima crisi attraversato da Margaret e Clarke. Lei si rifugia in una casa vuota, arredata da una semplice tinozza, in modo da poter restare da sola con i suoi pensieri. Lui affronta malvolentieri i preparativi per il festeggiamento del suo cinquantesimo compleanno.
Proprio in occasione del party, avviene un incontro non preventivato. Margaret incrocia lo sguardo di Mercy, una giovane donna americano-coreana che, presa da un panico improvviso, fugge via. Sua è la voce fuori campo inserita nell’incipit della serie, a commento delle diapositive di persone coinvolte in incidenti mortali, una voce anonima e desolata che chiede di conoscere, una volta tanto, non le informazioni divulgate dai media a corredo delle vittime – nome, età, professione – ma qualcosa in merito a chi ha la responsabilità del disastro. Gente come me, dice Mercy. Ovvero i colpevoli.
Expats è ambientata nel 2014, quando per circa tre mesi l’ex colonia britannica fu scossa dalle proteste in favore del suffragio universale e di elezioni libere dall’ingerenza del governo di Pechino. Gli eventi di quei giorni, passati alla storia come “rivoluzione degli ombrelli”, sembrano non intaccare le abitudini, dell’élite cosmopolita di cui Margaret e Clarke fanno parte e la loro stessa percezione del mondo. Il Peak, il lussuoso complesso residenziale che ospita gli “espatriati” del titolo (“la più alta concentrazione di uomini calvi in cabriolet”, secondo la definizione di Mercy), è appollaiato su una collinetta, sufficientemente in alto per evitare il chiasso del centro cittadino.
La serie offre allo spettatore uno spaccato sociologico poco conosciuto. Le famiglie degli expats hanno bisogno di qualcuno che badi alle loro case e ai loro figli. La relazione con il personale di servizio scorre sul filo dell’ipocrisia. I ricchi impiantati ad Hong Kong sanno di essere un ceto di impostori?
Nel secondo episodio, che sposta indietro le lancette del tempo al giorno della scomparsa, Margaret afferma di considerare Essie “una di famiglia” e non una dipendente. Tuttavia, la stessa Margaret non riesce a mascherare il proprio fastidio quando Gus chiede di essere preso in braccio dalla domestica. A tavola, Gus preferisce mangiare le pietanze cucinate da Essie, filippina al pari di molte donne al servizio degli “espatriati”, anziché le lasagne (un piatto universalmente noto, ed eletto a simbolo della globalizzazione del gusto dall’alta borghesia transnazionale) preparate dalla madre. Si accumulano i segni di un’insofferenza strisciante. Da qui, la scelta di staccare Gus dalla donna, anche su consiglio di Hilary, sua amica e vicina di casa. Margaret confida a Hilary di non aver desiderato un terzo figlio. Poche ore dopo, Gus si volatilizzerà nel nulla.
Tre immagini dell’alienazione dorata degli espatriati: Clarke che guarda in televisione una partita di football americano, mentre fuori dalle finestre svettano i grattacieli, non di NYC, ma della città-stato. David, il marito alcolizzato di Hilary, il quale crede di poter trattare da pari a pari il proprio autista e reagisce con stizza quando lui lo chiama “signore”. Margaret, che va alla disperata ricerca dello sciroppo di mais e si rivolge a un cliente del supermercato in inglese pretendendo di essere accontentata.
Al contrario Mercy, laureata alla prestigiosa Columbia University (frequentata grazie a una borsa di studio), non trova impieghi soddisfacenti e si deve barcamenare tra un lavoretto e l’altro. Mercy è un’invisibile e lamenta il peso di una maledizione. Per scommessa con se stessa, Mercy si getta in mare dal gigantesco yacht che ospita una delle tante feste organizzate per combattere la noia e passa sotto la chiglia da parte a parte. Quando alza gli occhi per vedere se qualcuno abbia assistito all’impresa, resta delusa. Allora risale a bordo e incontra Margaret.
L’altra coppia è formata da Hilary e David. Hilary, di origini indiane, lavora nel campo della pubblicità, David, americano, è un avvocato. Hilary, all’anagrafe Harpreet, sfacciatamente benestante eppure traumatizzata da un’infanzia trascorsa nel segno della mancata integrazione con gli altri (i bianchi WASP, of course), si rifiuta di avere figli e per questo, senza dirlo al marito, usa un contraccettivo. I ripetuti tentativi falliti convincono David di essere sterile. Così, quando inizia la sua relazione clandestina con Mercy, è lui a non prendere precauzioni. Il tema della discendenza rinvia alla questione del futuro. Hilary non vuole bambini mentre Margaret ha smarrito il suo Gus. Una distrazione per quale si sente però fatalmente colpevole, come se, in qualche modo, l’avesse desiderata.
Clarke cerca di consolare la moglie: “hanno preso Gus, non l’hai perso”. Ed aggiunge una postilla rivelatrice. Gus assomigliava a lui. Clarke è di origine orientale. “Un ragazzino bianco avrebbe dato nell’occhio”, soprattutto se qualcuno avesse tentato di portarlo oltre confine (cioè in Cina). La bianchezza è un privilegio involontario? L’elemento estetico è importante e spesso calcato in Expats. Mercy odia il proprio volto. Nella sua mente riecheggiano le parole di una madre superstiziosa e fanatica, convinta che sulla figlia si addensino nuvole nere fin dalla nascita.
La fotografia di Expats gioca sui contrasti. Nella notte, i grattacieli si tramutano in alveari di luce. I colori dei mercati inebriano, confondono, il caos dei vicoli è gioioso e disturbante. Nella metropoli convergono voci, credenze, modi di intendere la realtà alternativi e confliggenti. La postmodernità di una piccola nazione, perfettamente integrata nei mercati finanziari internazionali, si scontra con la forza persistente delle fedi religiose, spesso vissute con spirito sincretico. Una pietra può essere un segno di Dio o un talismano, oppure entrambe le cose insieme.
Hong Kong è una babele del Ventunesimo secolo. I giovani, più istruiti degli anziani, preferiscono l’inglese al cantonese. La lingua è un lasciapassare e al contempo una trappola. Le tradizioni culinarie fanno la loro parte. Ognuno porta in dote i piatti tradizionali del proprio paese, salvo poi disprezzarli, in quanto retaggio di vecchi legami da recidere. Accade a Hilary. I pinni (polpette dolci tipiche del Nord dell’India) piacciono solo alla vicina di casa, che, da buona interprete dell’ideologia salutista, chiede se abbiano un potenziale “proteico”.
Nel quarto episodio la storia si fraziona in tre quadretti claustrofobici. Hilary rimane accidentalmente chiusa in ascensore con la sua odiosissima madre. David e Mercy, bloccati in due bolle di rimorso non comunicanti tra loro, fronteggiano l’inatteso. Margaret e Clarke cercano la verità su Gus tra i freddi cunicoli di un obitorio di Shenzen.
Nicole Kidman (Margaret) non delude le aspettative. Più si addentra nei meandri della disperazione, più la celebre attrice appare convincente. L’aspetto algido della Kidman conta molto nel rappresentare, con nettezza drammaturgica, l’icastico personaggio dello straniero. “Tutte le mie amiche in patria sono direttori d’azienda o artiste, qui sono solo una moglie”, dice al marito Clarke, ancor prima dell’evento X. In una città aperta, plurale, vivace, gelosa della propria specificità e autonomia, in una città che si presume possa ospitare chiunque, Margaret constata la sua estraneità al contesto e, successivamente, l’insanabilità della frattura occorsa al suo nucleo familiare.
Oltre alla Kidman, gli autori hanno assemblato un cast etnicamente eterogeneo e dagli incastri complementari, soppesati col bilancino. Brian Tee (Clarke), Sarayu Rao (Hilary), Ji-young Yoo (Mercy) e Jack Huston (David) realizzano un mosaico esistenziale complesso, un centrifugato di mondi ed esperienze destinate a confliggere vicendevolmente. Attraverso le storie vissute dai personaggi si racconta la sconfitta di un’utopia. L’evento inaspettato e tragico frantuma i sogni della nuova cosmopolis riservata a un ceto di privilegiati. L’élite coltiva l’illusione poter risiedere ovunque ma, in definitiva, la loro Hong Kong è una terra di nessuno, popolata da sradicati e the Peak è un castello che non può riparare dalle tragedie della vita.
Il quinto episodio, della durata di un film di media lunghezza, segna una cesura. Alcune figure acquistano maggior peso nella narrazione, in particolare il pastore battista Alan Mambo, la ricchissima Olivia (costretta a selezionare una nuova donna di servizio perché… la sua viziatissima figlia ha sputato in faccia alla fidata Minda) e Charly, una ragazza locale tra le cui braccia Mercy cerca protezione. Mentre il tifone infuria provocando un blackout notturno, ci si rifugia in case non sempre ermetiche. Qualcuno deve fronteggiare un gocciolamento dal soffitto, qualcuno si intrufola di straforo nella piscina di un residence di lusso con vista spettacolare sui grattacieli. L’elemento-acqua è ricorrente. Tutto scorre in direzione contraria alle aspettative dei manifestanti. La tempesta diventa metafora della situazione politica della città-stato.
L’affresco di Hong Kong in rivolta è vivace. Mentre un mare di ombrelli colorati dilaga nelle strade, gli interstizi della metropoli sono occupati da altre comunità. Sono i migranti dell’est asiatico. In estemporanei luoghi di ritrovo, ritagliati tra gli spazi urbani, le domestiche filippine giocano a bingo, prendono in giro i padroni e si esercitano nel canto. Puri, la domestica di Hilary, sogna di sfondare grazie alla sua bella voce. Dalla prospettiva di Puri, assistiamo alla scena del litigio e della separazione di Hilary e David. Per poche ore si cementano complicità effimere. L’illusione è breve. All’alba, inevitabilmente, la logica di classe torna a prevalere su ogni differente considerazione.
Nell’episodio finale Charly invita Mercy a ritenersi fortunata. Incinta di un uomo bianco, con una laurea presa in America, Mercy potrebbe perfino concedersi il lusso di partire grazie al suo passaporto. Expats ci ricorda una verità semplice e terribile: solo una minoranza (nel mondo) ha il privilegio di poter scegliere cosa fare della propria vita.
In televisione scorrono le immagini della capitolazione. La polizia sgombera il presidio dei giovani. La rivoluzione è fallita. Expats, per ovvi motivi, non è distribuita a Hong Kong. In sintesi, la serie ideata da Lulu Wang (The Farewell) è una tragedia privata su sfondo politico. Il confronto al femminile tra Margaret, Mercy e Hilary sfocia in un doppio confronto bilaterale, con la ragazza nel ruolo di ago della bilancia.
Le parole più disperate sono pronunciate da Clarke. Rivolgendosi al suo confessore, rivela di aver desiderato che la visione di un cadavere mettesse fine a tutto. La visione del cadavere che non c’è. È l’indefinito a sconvolgere. Indefinito il destino dei personaggi, indefinita la sorte di Gus, indefinito il futuro di Hong Kong.
Numero di episodi: 6
Durata: un’ora l’uno
Distribuzione: Prime Video
Uscita in Italia: 19 gennaio – 23 febbraio 2024
Genere: Drama
Consigliato a chi: apre le finestre mentre piove, non si fida degli uomini con il cagnolino, conosce gli effetti positivi del canticchiare.
Sconsigliato a chi: soffre di jet lag, ha il terrore delle macchie di umidità, quando chiude gli occhi vede carcasse di pollo.
Visioni e letture parallele:
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Impossibile non consigliare il capolavoro di Kar-Wai Wong citato nella serie: In the Mood for Love (2000), disponibile per l’acquisto o il noleggio su Prime Video.
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Hong Kong significa anche film sul kung-fu, magari con il grande Gordon Liu (molto prima di Kill Bill…): Clan of the White Lotus di Lo Lieh Ras (1980). Disponibile su Mubi.
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Nel 1988 nella città-stato si potevano pubblicare libri in piena libertà, ad esempio questa corposa ricerca su una tragedia epocale: Lapidi. La Grande Carestia in Cina di Yang Jisheng, Adelphi (2024).
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Un romanzo recente ambientato nella Hong Kong delle proteste: Lawrence Osborne, Java Road, Adelphi (2023).
Una canzone: Blondie, Heart of glass
Un dolce: Baked Alaska


