Ethan Coen e la moglie Tricia Cooke hanno scritto questa fragilissima commedia, Drive-Away Dolls, come prima parte di una improbabile trilogia queer.
Il risultato è talmente scialbo e poco ispirato da sembrare una parodia involontaria di tutto quanto aveva fatto grandi i fratelli Coen a cavallo della fine del Novecento: l’ironia fulminante e sottile, il mescolamento sapiente dei codici di genere, l’irrompere della filosofia e del destino nelle vite dei loro protagonisti, la capacità di evocare mondi – non solo criminali – spogliandoli di ogni aura: insomma, il cinema americano postmoderno nella sua quintessenza.
Separatisi dal 2018 dopo un modesto lavoro a episodi diretto per Netflix, i due fratelli sono tornati al cinema evidenziando nel modo più chiaro quanto la somma dei loro talenti fosse la chiave del successo che li ha accompagnati per oltre trent’anni.
Joel ha diretto un adattamento tutto formalista del Macbeth per Apple, mentre Ethan, dopo un documentario su Jerry lee Lewis, ci propone questo Drive Away Dolls, che pare girato da un dilettante, tanto è mal impaginato.
Nella scrittura ritroviamo temi e accenti riconoscibili, ma siamo di fronte ad un apocrifo, se non direttamente a un falso, incapace di strappare una sola vera risata, nonostante impieghi l’umorismo più volgare e di basso livello che i due fratelli abbiano mai sperimentato sullo schermo.
La pruderie lesbica è peraltro degna del più bacchettone dei conservatori, con le due protagoniste impegnate a non mostrare un solo centimetro di pelle, nonostante passino metà film a letto o in bar d’appuntamenti.
Gli stessi villain – Colman Domingo, Matt Damon i due scagnozzi – svaniscono nella memoria un secondo dopo la loro morte sullo schermo, come il povero Pedro Pascal, che fa una brutta fine a 5 minuti dall’inizio dei titoli.
Restano le due protagoniste, la sboccata e disinibita texana Jamie e la repressa e sessuofoba Marian.
La sceneggiatura le spinge al viaggio da Philadelphia a Tallahassee in Florida, su un’auto altrui, in quelli che si chiamano appunto drive-away.
Solo che le due non sanno che su quella auto c’è una valigetta molto importante per un senatore conservatore, che mette sulle loro tracce i suoi uomini fidati.
Siamo alla fine degli anni ’90, in modo da non avere cellulari e mezzi di comunicazione e tracciamento efficace, per poter continuare a seguire un’avventura che annoia dopo una manciata di minuti.
Le due ragazze finisco per portarsi a letto una squadra di soccer femminile, mentre la scoperta del contenuto della valigetta è l’ultimo degli sberleffi di un film puerile.
Non c’è davvero nulla che funzioni in questo film che sembra tratto da una sceneggiatura scritta da un quindicenne senza talento.
Le due attrici sono davvero sotto il minimo sindacale con Margareth Qualley mai così mediocre, nonostante la consueta grazia. Il suo problema è forse passare mezzo film a duettare con la statua di marmo interpretata Geraldine Viswanathan: la peggior coppia mai vista per un buddy movie con delle ambizioni.
La presenza di Beanie Feldstein è ridotta a poco più di un cameo, come quella degli altri personaggi: nomi di richiamo su una locandina per vendere un film fatto di nulla.
Più il film prosegue più il meccanismo drammatico si fa farraginoso, risaputo, privo di interesse.
Se il riferimento più vicino è quel capolavoro de Il grande Lebowski, la nostalgia di un passato lontano si fa ancora più struggente.
Nei film dei Coen spesso la stupidità è stata una caratteristica comune a personaggi raccontati con acuta intelligenza. Qui pare che i termini si siano clamorosamente invertiti.
La sola idea di dover vedere altri due film di questa farsa pare più una tortura che un’opportunità.
Honey Don’t si intitola il secondo film: è quello che vorremmo dire noi a Ethan.
Assieme all’invocazione presa a prestito da un’altra citazione facile del loro cinema migliore: Fratello dove sei?

