Gentrificazione è uno dei termini più usati e abusati dell’urbanistica contemporanea. Scrive il sociologo Giovanni Semi: “A partire dagli anni Sessanta del secolo scorso e con una frequenza crescente, decade dopo decade, le città di buona parte del pianeta hanno visto spuntare al loro interno, come funghi, quartieri simili tra loro ma diversi rispetto al proprio passato. Indipendentemente dal tipo di architettura che li caratterizzava, questi quartieri sono stati «riscoperti» per alcune loro qualità e ritenuti meritevoli di forme d’investimento allo scopo di trasformarli e renderli abitabili, e abitati, da persone tendenzialmente diverse da quelle che vi erano in precedenza” (in Gentrification. Tutte le città come Disneyland?, Il Mulino, 2015). Il fenomeno potrebbe essere sinstetizzato nei termini di una “ristrutturazione selettiva di immobili cadenti”, operata da una “classe media di frontiera”.
In The Curse, serie prodotta dal laboratorio creativo di A24 (lo stesso di The Beef) in collaborazione con Showtime, Asher e sua moglie Whitney hanno una bella pensata. Perché non sviluppare un progetto di case passive, ovvero a impatto zero sull’ambiente e filmarne la gestazione, passo dopo passo? La filosofia del docu-reality si avvicina a quella del celebre Extreme Makeover – Home Edition, o ancora a Fratelli in affari: SOS Celebrity, non a caso due prodotti della galassia televisiva HGTV, lo stesso network interessato agli episodi di Flipanthropy. Il luogo prescelto è l’assolata e assetata cittadina di Española, New Mexico, località confinante con uno dei ventuno gruppi pueblos federalmente riconosciuti negli Stati Uniti, quindi con un’alta percentuale di popolazione nativo americana ivi residente. Riusciranno Asher e Whitney Siegel a favorire la nascita di un contesto urbano libero dalle emissioni di carbonio, a creare nuovi posti di lavoro, ad abbattere i locali tassi di povertà e criminalità, nel rigoroso rispetto delle peculiarità storiche e culturali del territorio?
The Curse si candida al premio di miglior satira sociale degli ultimi anni. Il progressismo del ventunesimo secolo in salsa eco-friendly è il bersaglio dichiarato dei due ideatori, il comico Nathan Fielder (The Rehearsal) e Benny Safdie (autore con il fratello Josh del film di culto Uncut Gems), che interpretano rispettivamente il protagonista maschile Asher Siegel e Dougie Schecter, amico di lunga data, nonché regista e produttore dei programmi della coppia. La bravissima Emma Stone si conferma in stato di grazia. L’attrice di La La Land e del recente Povere creature! riesce a trasmettere allo spettatore l’artificiosità del personaggio Whitney attraverso sguardi, espressioni e una minima gestualità carica di significati.
Whitney è una donna infelice. Il contesto familiare pare esserle ostile. I suoi genitori, come le viene spesso ricordato durante le interviste, non sono esattamente dei lungimiranti benefattori. Il padre Paul e la madre Elizabeth, imprenditori attivi nel business delle case popolari, sono infatti conosciuti con il titolo, certamente poco lusinghiero, di “signori dei bassifondi”. Per colpa loro, accusano le vittime, molti sfratti sono stati eseguiti dalla sera alla mattina. Tuttavia, Whitney non può fare a meno del loro appoggio, soprattutto finanziario. Ma l’infelicità di Whitney deriva anche dalla circostanza di non riuscire ad avere un figlio da Asher. Il quale, peraltro assillato da un problema di lunghezza fallica, predilige pratiche sessuali che mal si conciliano con la possibilità di concepire.
“Tu credi che ogni persona svantaggiata sia un animale selvaggio”. Il servile Asher (il servilismo non è forse una prova ultima di insicurezza?) si sente apostrofare così da Whitney. E, per sgravarsi di dosso un fardello di fiducia mal riposta, l’asseconda incondizionatamente nella realizzazione di un sogno incredibile. La nuova Española è un eden promesso e un’utopia afferrabile. Non è solo architettura artisticamente valida (“funzionale allo scopo”, dice continuamente Whitney per esorcizzare il pericolo del lusso) e innovativa. È un progetto sociale in cui ogni ipotesi di conflittualità risulta bandita, si potrebbe dire, per statuto.
La matrice umoristica ebraica è un marchio evidente di The Curse. Asher accetta di partecipare a un corso di comicità, ma si accorge di non far ridere nessuno. Anzi, le sue battute disturbano gli altri partecipanti, tanto da spingere il docente ad escluderlo dalle lezioni. Anche gli spazi preposti alla terapia e alla liberazione dall’angoscia, sembrano dirci gli autori di The Curse, subiscono la regola tacita della castrazione. Il matrimonio dei Siegel è disfunzionale perché si regge sull’equivoco e su una contemporanea forma di ipocrisia. In virtù dell’applicazione istantanea di soluzioni, che siano garantite dalla tecnologia, dalla scienza dei materiali o dalla spiritualità, il male è oggetto di esorcismo. Il paradigma che regge le convinzioni di Whitney è, letteralmente, un dogma. La sua devozione verso i meno fortunati non ammette repliche perché intrinsecamente buona e meritevole di universale riconoscimento (chi potrebbe mai dare della bugiarda a una nobile paladina dei diritti dei più deboli con la maglietta di Greenpeace incollata addosso?). La reputazione è la vera posta in gioco. “Tutto quello che fa è così sincero e puro… è come se fosse collegata con l’universo… lei è migliore di me”, confessa Asher al suo amico-carnefice Dougie.
Nei confronti di un animo così puro e sincero, è impossibile che il mondo opponga un rifiuto. L’acquirente ideale delle abitazioni fatte ristrutturare da Whitney non dovrebbe mai preferire un energivoro piano di cottura a gas a un virtuoso piano a induzione, non dovrebbe sentire il bisogno di montare condizionatori (la temperatura interna oscilla sempre tra i venticinque e i diciotto gradi), non dovrebbe mai rinunciare a nessuna delle comodità, dal pavimento di rovere rigenerato al riciclo delle acque che dal lavandino finiscono nel water, ovviamente pensate per rendere l’intera città un posto migliore. A Española nessuno dovrebbe mai rubare i pacchi ai vicini o portare la pistola nella fondina. E se qualcuno viene pizzicato a rubare jeans dai negozi, la soluzione è dare alla commessa il numero della propria carta di credito, per rendere il furto, giuridicamente, un acquisto…
Lo show desiderato a ogni costo da Whitney assume i contorni di un rito inquietante e distopico. The Curse riesce a essere una serie comica senza far ridere e a essere un horror senza mostrare la minima goccia di sangue. Dougie svolge il ruolo di gran cerimoniere della morte annunciata di una coppia. Sa di avere a che fare con un marito inetto e una moglie frustrata e, da cinico imprenditore del medio voyeurismo televisivo, intuisce le potenzialità della situazione venutasi a creare. Dougie indirizza lo spettacolo nella direzione di un melodramma kitsch aggiornato ai tempi di Instagram, in cui finzione e realtà inevitabilmente si confondono.
Cosa attira maggiormente il pubblico? Una lezioncina sulla certificazione passiva delle case sostenibili o una lite scatenata dal gesto di Asher di tenere in mano, simultaneamente (ecco l’orrore!), il proprio cellulare e una ceramica artistica forgiata dalle nobili mani dei nativi americani? Dougie vede la crepa e lascia che in essa penetrino l’astio, la rabbia repressa e il risentimento per le occasioni sfumate. Quando Whitney propone di cambiare titolo al reality, lui trova Green Queen una scelta vincente, indiscutibilmente adatta a lei. Se Whitney vestirà con pieno diritto i panni della futura Regina verde, Asher sarà il Re al suo fianco? O forse, insinua Dougie, per lui è più indicata la parte dello scemo del villaggio?
Il titolo The Curse è dovuto a una maledizione lanciata su Asher nel secondo episodio. Una bambina nera di nome Nala vende lattine di Sprite a un dollaro l’una nel parcheggio di un supermercato. Piccolo inciso: nero è sinonimo di povertà e di esotismo, perché un nero per un radical-chic deve venire per forza dal Corno d’Africa anziché dal Minnesota, deve accompagnare gli hot-dog con il riso o in alternativa con le verdure, deve credere alla presenza di forze ancestrali anche se viviamo al tempo di TikTok… Torniamo a Nala. Dougie suggerisce al coprotagonista dello show di avvicinarsi a lei per girare una scena filantropica. Peccato che Asher abbia in tasca solo una banconota di grosso taglio. Dopo averle dato i cento dollari, glieli chiede indietro con la promessa di restituirle un pezzo da venti non appena cambiati (la sequenza del bancomat, una delle migliori di tutta la serie, è una storia a sé). È qui, poco prima che si allontani, che Nala maledice Asher. E Asher quella stessa sera, si accorge di un fatto strano. Nelle penne al pollo ordinate per cena non trova… il pollo.
“Vorrei che il network ci avesse visti”, dice Whitney ad Asher dopo che lui le sfila una maglia di dosso. Nel delirante mondo degli influencer anche una zip incastrata è un divertente spunto per una sitcom da postare. La maledizione è invisibile e quindi onnipresente. È nel disagio, nell’ansia, nella paura di qualcosa in attesa di accadere. La maledizione è palpabile e insieme inesistente, autoprovocata e non verificabile, in senso scientifico, al pari del nostro oroscopo quotidiano. È nell’aria, nell’etere, negli angoli. La maledizione è nella fibra delle parole, nel tessuto lacero delle relazioni umane, in definitiva, the curse siamo noi.
Le musiche elettroniche di John Medeski, prodotte da Daniel Lopatin, sottolineano la crudele indeterminatezza di ogni singola scena. Sembra che la realtà si stia per sfaldare sotto i piedi dei protagonisti, eppure il peggio non accade. Forse perché l’inconsistenza è ormai la cifra delle nostre vite. Microfoni attivati per caso o lasciati aperti per pura dimenticanza registrano frammenti di conversazioni, destinati a comporre un mosaico di malintesi verbali. Non vi è un punto di vista favorito dal quale osservare lo scorrere degli eventi. Le inquadrature sono spesso impallate da cartelli stradali, oggetti o arredi.
Le superfici restituiscono riflessi deformanti. A volte gli zoom tentano di avvicinarsi al soggetto, come videocamere di sorveglianza silenziosamente accese o gopro che si mettono in funzione all’improvviso, senza alcuna logica apparente se non quella del poter essere tecnicamente nei pressi dell’azione. Infinite telecamere compongono un capillare muro di occhi in stile documentario. La visione laterale, parziale, o addirittura impedita, sembrano volerci dire gli autori, è oggi l’unica possibile per lo spettatore che voglia effettivamente guardare qualcosa.
“Il colonialismo esiste ancora… Occupiamo terre ottenute con la forza”. Ovviamente sono commenti di Whitney, che per comprendere meglio la lingua e la cultura del pueblo assume in veste di consulente la sua amica Cara Durand, artista etnicamente connotata (la performance nel teepee, con il taglio della carne di tacchino e la “scelta” di mangiarla o meno lasciata al fruitore dell’opera, è un’altra piccola perla di satira).
Occorre soffermarsi sul peso assegnato all’arte. Case-specchio riflettenti che ricordano le installazioni di Doug Aitken, case arredate da suppellettili artistiche ideate per scopi precisi, case rispettose dell’identità profonda e dell’anima del territorio perché inserite in un percorso narrativo che non rompe con la tradizione nativo americana. Whitney interpreta l’arte quale forma di redenzione dai mali del presente, il razzismo, l’odio verso le minoranze, l’esclusione sociale… Cara ha già dimostrato di potersi appropriare dei feticci del baseball trasformandoli in un’opera originale. Potrebbe fare lo stesso con la dozzinale statua del pellerossa esposta in un minigolf? Non sappiamo se Whitney abbia in mente l’orinatoio di Duchamp che, grazie alla sua firma, diventa Fontana (1917). Cara, che contro ogni idealizzazione della figura dell’artista è costretta a sbarcare il lunario in un centro massaggi, si rifiuta di apporre la sua firma sulla patacca di legno consegnatale a domicilio dall’amica. La statua è infine gettata in un camion della spazzatura. D’altronde, in The Curse non mancano collezionisti d’arte che fanno gli appaltatori militari…
L’episodio finale è una caduta nel territorio dell’assurdo e del surreale che si presta a varie interpretazioni. Forzatura? Forse. Tuttavia, se maledizione dev’essere…

Titolo originale: The Curse
Numero di episodi: 10
Durata: 40 – 70 minuti ciascuno
Distribuzione: Paramount+
Uscita in Italia: 12 novembre 2023 – 14 gennaio 2024
Genere: Satire, Black comedy, Psychological Thriller
Consigliato a chi: usa il sapone al latte di capra, preferisce le taglie slim, ha un etilometro nel cruscotto dell’auto.
Sconsigliato a chi: non conosce la favola di “al lupo al lupo”, non ha mai cantato Stand by me ad alta voce, ha la tendenza ad ingigantire le cose.
Visioni e letture parallele:
-
A cosa può portare il desiderio di essere al centro dell’attenzione? Ce lo racconta il film Sick of Myself di Kristoffer Borgli (2022). Disponibile su Mubi.
-
Un romanzo non convenzionale che, come Asher, sfida la legge di gravità: Éric Chevillard, Sul soffitto, Del Vecchio Editore (2015).
-
Una rivista online tutta da sfogliare, magari tenendo l’aspirapolvere a portata di mano: https://amazingarchitecture.com/
Un duello culinario: meglio le polpette al sugo o il manzo speziato alla marocchina?

